Enzo Mari, The big stone game
Richard Serra, The Matter of Time
In alcune lezioni precedenti abbiamo notato (clip 7, 10, 16) che allestimento e arte -soprattutto, ma non necessariamente contemporanea- in molti casi sembrano condividere obiettivi, metodologie, armamentario.
In questa lezione esamineremo alcune opere molto diverse tra loro -diverse per aree, culture, autori, e perfino secoli-, che ci portano ad affrontare nuovamente questo tema. Sicché, giocando ancora con le parole, il titolo di questa lezione potrebbe essere: allestimento dell’arte e/o arte dell’allestimento.
D’altra parte, il ruolo e l’importanza che il luogo -come sede e come materia dell’esposizione- riveste in tutto quello che vedremo ci potrebbe suggerire un altro gioco di parole e un altro titolo: allestimento del luogo e/o luogo dell’allestimento.
Sicché, sintetizzando, il titolo può diventare: luogo, arte, allestimento.
Cominciamo…
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1.
Enzo Mari, Il posto dei giochi, per Danese, 1967, e The big stone game (o anche Playground), Carrara 1968 .
Anna Ghiraldini presenta The big stone game di Mari (17.1, 17.3) in una breve scheda del CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione, di Parma) che meriterebbe di essere letta interamente per le informazioni che offre e per le riflessioni che richiama [1].
In particolare ci informa che […] nel 1968 Mari viene incaricato dall’Ente del Marmo di Carrara di progettare un campo da giochi da esporre alla III Mostra Nazionale del Marmo; l’opera sarà collocata nell’area verde di pertinenza dell’esposizione tra i lavori di diversi scultori e architetti. Mari decide “di costruire una sorta di spazio allusivo di questa possibilità di gioco e di questa libertà di interpretazione del luogo”.
The big stone game è una piattaforma per i giochi che consiste in uno spazio scoperto a base quadrata, con pavimentazione in lastre di ardesia quadrate, delimitato in prossimità degli angoli da quattro coppie di pareti in marmo, ciascuna dotata di una coppia di fori ovali variamente disposti (17.2); le otto pietre sono orientate verticalmente, con larghezza di 125 cm e altezza di 250 cm, e 250 cm è la misura anche dello spazio compreso tra due pietre poste lungo lo stesso lato, portale di accesso allo spazio dei giochi. […]
Si tratta di un’opera che suscita alcune considerazioni, e anche domande solo apparentemente retoriche.
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A Carrara, Mari realizza una scultura? un’architettura? un’opera d’arte site-specific?
(a proposito: esiste un’architettura che non sia site-specific?)
In un’intervista [2], Mari rifiuta fermamente l’idea di coloro che vogliono ricondurre il suo lavoro alla scultura (manufatto da collezionista, e perciò priva di senso). Occorre essere molto attenti nei riguardi di interventi per così dire artistico-artigianali -aggiunge- giacché questi si prestano ad ambigue mistificazioni di linguaggio.
Sostiene invece di essere stato semplicemente un tecnico: si era trattato -afferma- di progettare un campo di giochi, e quindi di risolvere dei problemi tecnici ed economici. La scelta del marmo -afferma ancora- era stata solo funzionalmente necessaria: […] gli otto grandi pannelli di travertino a parità di resistenza di altri materiali e a prezzi competitivi -essendo realizzati in materiale massiccio- hanno durata maggiore e ognuno di essi, date le proprietà naturali del marmo, è diverso dagli altri e quindi riconoscibile (componente utile al fine dei giochi).
Siamo nel ’68, e la dichiarazione di Mari è una provocazione che riflette la sua convinta adesione alla contestazione studentesca della cosiddetta ’arte borghese’. Ma non è solo una provocazione.
Mari in quegli anni era già noto, prima come artista, poi come designer, proprio per l’attenzione non solo alle ragioni dei materiali e dei processi produttivi, ma soprattutto alle responsabilità etiche e politiche del lavoro del designer. Molti anni dopo, nel 1997, con la vis polemica di sempre, ripeterà ancora una volta icasticamente che il progettista non può non avere una sua ideologia del mondo. Se non ce l’ha è un imbecille che dà solo forma alle idee altrui.
Per spiegare questo aspetto dell’importanza e dell’influenza di Mari nel mondo del design, Alessandro Mendini, nel 1980, in un editoriale su Domus era giunto a scrivere e proclamare paradossalmente che se non ci fossero gli oggetti di Mari, gli importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer… [3]
Ma torniamo a noi. Perché a Carrara chiamano proprio Mari?
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Il fatto è che Mari, coerentemente con le sue idee, era da anni estremamente sensibile e interessato alla funzione educativa del design per l’infanzia e ai giochi dei bambini: 16 animali, lo zoo-puzzle prodotto da Danese è del 1956 (17.4), le serigrafie per la Serie della Natura partono dal 1961, Il gioco delle favole è del 1965…
Nel 1967, dunque l’anno prima dell’incarico dell’Ente Marmo di Carrara -o forse contemporaneamente ad esso? [4] – aveva inventato il posto dei giochi, sempre per Danese (17.5, 17.6).
Un ambiente da comporre liberamente -così lo definisce Tommaso Trini nel 1968 su Domus-, un castello o una fortezza in cui il bambino sviluppa il proprio estro […]. Non è solo il primo ambiente ideato per i bambini -aggiunge Tommaso Trini-, ma anche un ambiente-tipo; i simboli degli elementi e dello spazio hanno quel grado di astrazione capace di renderli accessibili a tutti e di lasciare insieme libera l’immaginazione. [5]
A tutti gli effetti, il posto dei giochi non è semplicemente un ‘oggetto di design’. E’ invece uno strumento per permettere ai bambini di allestirsi un luogo tutto loro.
Chiuso o aperto, offre loro la possibilità di ritagliarsi uno spazio. E’ una quinta, una separazione, cui possono dare una forma, e che si presta a tutti i comportamenti e ai giochi che una separazione favorisce: nascondersi, isolarsi, o sbirciare di nascosto cosa fanno gli altri, o regolare i rapporti tra chi è qui e chi è dall’atra parte, etc.
Collocabile e ricollocabile in qualsiasi luogo, è l’allestimento di un posto, ossia l’allestimento ogni volta modificabile di un luogo in un altro luogo -così come il mio posto a tavola è il luogo a me riservato intorno alla tavola, nella sala da pranzo-.
Realizzato in cartone ondulato, ripiegato e ripiegabile, è leggero e trasportabile facilmente. Trasportabile significa che è un allestimento smontabile e rimontabile, così come smontabile, trasportabile, e rimontabile è l’allestimento di una mostra itinerante.
Non solo: come l’allestimento di una mostra, è effimero, destinato a durare fino a quando i bambini, giocando e crescendo, non ne saranno più interessati -e ne faranno coriandoli-.
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A differenza di Il posto dei giochi, The big stone game era un’opera tutt’altro che trasportabile e avrebbe potuto essere tutt’altro che effimera. E questo non è senza conseguenze.
Realizzata con i marmi e le lavorazioni che da secoli hanno reso Carrara famosa nel mondo, era stata realizzata prima di tutto come un’operazione promozionale nel contesto di un evento fieristico: una specie di insegna pubblicitaria per acchiappare e fare affari con architetti e amministratori pubblici. Alcuni anni dopo l’avremmo classificata maliziosamente come una scultura segnaletica [6].
Ma la sua consistenza, la scelta della pietra a forte spessore come materiale costruttivo -che Mari riduttivamente definì una scelta soltanto ‘tecnica ed economica’- le avrebbe permesso di durare probabilmente quanto Stonhenge, e tra qualche migliaio di anni archeologi -forse alieni- si sarebbero chiesti per quali misteriosi riti fosse stata concepita…
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Riflessioni
Questo dettaglio -che non è un dettaglio secondario- aprirebbe una riflessione in territori diversi da quelli che qui stiamo esplorando, e che perciò, qui, possiamo solo accennare, chiudendola in un inciso e lasciandola in sospeso come una domanda.
Certo, The big stone game non era soltanto una scultura segnaletica, era un allestimento: l’allestimento dell’antico gioco dei quattro cantoni, ri-pensato da Mari nel 1968, dichiaratamente per educare i bambini alla strategia delle mosse e alla prontezza di riflessi, ma, in più, surrettiziamente alla bellezza e all’intelligenza delle cose.
Tuttavia, un’opera che avrebbe potuto durare così a lungo ci riporta nel territorio dell’architettura, e ci pone altre domande.
Cosa ne sarebbe stato in futuro della sua funzione originaria? O, rovesciando la domanda, che cosa sarebbe diventata quell’opera, dopo la scomparsa delle ragioni che l’avevano prodotta?
E allora, se la priviamo delle sue ragioni, The big stone game che cos’è: una scultura? O un allestimento? O un’architettura?
Ritorniamo ai significati della parola allestimento.
Nella lingua italiana la parola allestimento designa anche, nel mondo della nautica, tutte le operazioni che si svolgono dopo il varo di una nave al fine di renderne possibile un determinato uso.
Pensiamo a una chiatta, a un’imbarcazione allestita per trasportare merci lungo i canali e i fiumi d’Europa. Può succedere che poi, resa obsoleta dal trasporto su gomma o su rotaia, venga ri-allestita, ad esempio, come casa galleggiante, come le péniche in Francia, o le woonboot in Olanda. La chiatta -ossia la struttura, le dimensioni, la mobilità e il galleggiamento, la geometria, etc.- resta, ma non è più un mezzo di trasporto, diventa un’abitazione.
Mutatis mutandis è quanto accade anche nei mondi dell’architettura e delle esposizioni.
L’allestimento -lo abbiamo detto e ridetto tante volte- è la costruzione di un luogo in un altro luogo. Anche l’architettura è inevitabilmente costruzione di luoghi in luoghi preesistenti.
Ma l’allestimento è per definizione un’opera effimera, benché possa durare anche a lungo. E’ un adattamento progettato specificamente con l’obiettivo di consentire determinate funzioni: dura perciò quanto le funzioni per cui è nato. L’architettura, invece, anche se progettata per una determinata funzione, normalmente dura ben di più, e alla fine se ne infischia della funzione per cui è nata. E invece pregiudica, condiziona e, a volte, dà forma alle nuove funzioni che ospiterà.
La contrapposizione tra la temporaneità di un allestimento e la durata di un’architettura ci dovrebbe far riflettere sulla presunzione e l’occasionalità delle funzioni in architettura. Presunzione e occasionalità del tutto evidenti, sotto gli occhi di tutti, nell’eterno balletto tra permanenza -o stratificazione- delle forme e variazione degli usi, sempre ricorrente nella lunga storia delle città: basta pensare a quanto abbiamo visto anche in queste clip, all’uso e riuso di castelli, regge, caserme, prigioni, edifici industriali, etc.
In breve, mentre l’architettura può instaurare -e instaura spesso- rapporti di potere -ossia, di conquista e usurpazione- nei confronti del contesto, l’allestimento si arrangia come può, cooptando quello che trova, adattandosi e adattandolo provvisoriamente, cercando di convertire vincoli e condizioni in altrettanti mezzi per raggiungere i suoi contingenti obiettivi, ma con interventi quasi sempre reversibili. Di converso, le ragioni profonde dell’architettura non si esauriscono nelle pure funzioni e sono ben più complesse. Paradossalmente, ma significativamente può ben accadere che le funzioni siano modificate dai luoghi, dalle forme, che le ospitano e le consentono.
L’arbitrarietà o l‘opportunismo impliciti nella catena che lega il luogo ai suoi usi, è materia di ricerca di archeologi e storici, e infatti sembra molto simile ai processi -e spesso agli abusi [7]– che legano il significante al significato nell’universo linguistico, o anche, nell’universo della paleontologia, all’exaptation, a quelle modalità di adattamento nell’evoluzione delle specie che alcuni studiosi associano maliziosamente al bricolage [8].
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Il posto dei giochi e The big stone game sono dunque ‘cose’ molto diverse, ma sono strettamente imparentate. Non soltanto perché effimere nei fatti, o perché pensate per far giocare i bambini.
Ciò che veramente le apparenta è che sono allestimenti di luoghi: Mari inventa e allestisce dei luoghi che, pur effimeri, presentano tutta la complessità e il ventaglio di opportunità che -per definizione- il luogo consente.
Chiamarle sculture, o architetture, o opere d’arte o di design ne elude la pervasività, ne nasconde ed esorcizza il reale, fondamentale, senso.
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[1] https://www.csacparma.it/enzo-mari-the-big-stone-game-campo-da-giochi-in-marmo-1968/
[2] da un saggio del 1969 a firma di Pier Carlo Santini, anche in https://www.architetturadipietra.it/wp/?p=5137,
[3] https://www.domusweb.it/it/progettisti/enzo-mari.html
[4] I’idea de Il posto dei giochi è probabilmente antecedente al progetto del The big stone game, poiché tutto fa supporre che sia stata sviluppata da una geniale riflessione sulle Sculture da viaggio di Bruno Munari, risalenti col nome di ‘sculture pieghevoli’ ai primi anni ’50.
[5] l’articolo è stato ripubblicato da Domus nel marzo 2020, a cura di Cristina Moro: https://www.domusweb.it/it/dall-archivio/2020/03/05/lorso-loca-la-mela-il-linguaggio-di-enzo-mari.html
[6] vedi mostra Le Corbusier pittore scultore, clip 06, nota [4]
[7] In questo ambito, si parla genericamente di ‘abuso’ -ma il termine preciso è ‘catacresi’- quando in assenza di un significante specifico per designare qualcosa se adotta un altro per analogia: ad esempio le gambe di un tavolo, o il collo di una bottiglia.
[8] Cfr. Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, di A.J.Gould ed E.S.Vrba, a cura di T. Pievani, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Exaptation è il temine proposto da Stephen J. Gould e Elysabeth S. Vrba per designare i caratteri che oggi aumentano le possibilità di sopravvivenza degli organismi, ma che non sono stati modellati dalla selezione naturale per il loro ruolo presente. (ibidem, prima di copertina). Il paragone con il bricolage attribuito a François Jacob è citato nella postfazione di Pievani, a pag. 125.
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2.
Richard Serra, The Matter of Time, Guggnheim Museum Bilbao, 2005
Cambiamo scenario. Andiamo a Bilbao quasi 50 anni dopo The big stone game, per vedere la grande installazione di Richard Serra.
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Con The Matter of Time, l’installazione al Guggenheim Museum di Bilbao, Serra vuol mostrare l’evoluzione della sua ricerca artistica dal 1995 al 2005. E vuole mostrarlo, ossia farlo ‘capire’ facendolo ‘sentire’ ai visitatori: farglielo comprendere dunque senza didascalie, senza spiegazioni. Poiché in quella mostra -e, come sappiamo, in qualsiasi mostra- il ricorso alle parole potrebbe essere l’anticamera o il segnale del fallimento…
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The Matter of Time (17.7) è la composizione di otto sculture, una delle quali, Snake (17.8), era stata realizzata tra il 1995 e il 1997 appositamente per l’inaugurazione del museo, mentre le altre sono successive e sono state aggiunte nel 2005.
Non sappiamo ‘come’ Serra abbia studiato la distribuzione delle sculture -sarebbe interessante chiederglielo-. Il risultato finale (17.9) è probabilmente l’esito di un’elaborazione che si è avvalsa di una grande maquette (17.10), ma anche di rendering digitali, o della combinazione di entrambi, secondo un metodo progettuale che potrebbe essere non dissimile da quello di Gehry.
(Qui, di sfuggita, una mia personale opinione -e un consiglio- per coloro che vogliono imparare a progettare. Non fidatevi di maquette e rendering, ché possono facilmente trarre in inganno. Per prefigurare la realtà dell’opera finita, la nostra immaginazione, se ben coltivata, è infinitamente più affidabile di ogni altro artificio e/o supporto. In questa opinione, aggiungo, mi conforta quanto Serra stesso racconta -e sembra sottintendere- del suo lavoro)
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Non sappiamo ‘come’, ma sappiamo bene ‘perché’. Serra spiega la sua composizione in una illuminante intervista rilasciata a Hal Foster nel 2005, per il numero di settembre di Art Forum.[9]
[…] Ho disposto le sculture per consentire una circolazione libera -afferma-. Il tempo ha guidato la collocazione delle sculture tanto quanto la location [ossia la sala, lo spazio, l’architettura di Gehry, in sintesi: il ‘luogo ospite’].
Puoi trovare il significato, il senso, solo in come lo spettatore si muove nello spazio, cioè attraverso lo spazio di ogni singola scultura e attraverso lo spazio dell’installazione nel suo insieme. Il significato dell’installazione è dato dal ritmo del movimento di ogni spettatore, e muta con esso.
La ragione di ogni scultura e della distribuzione delle sculture nella sala è tutta nell’esperienza che ne fa il visitatore -dichiara Serra-, un’esperienza che si attua nei tempi dei suoi passi e negli spazi che attraversa. Ad ogni passo si aprono traguardi inattesi tra i margini di un’opera -o tra un’opera e l’altra- e il disegno quasi piranesiano [10] del cielo.
Le lastre d’acciaio si rincorrono come onde, si piegano, si incurvano, si sfiorano e si riallontanano in fuga. (17.11, 17.2, 17.13)
Ad esempio, nel caso di una delle sculture, Torqued Spiral (Right Left) del 2003-2004, (17.14), Serra spiega che induce un comportamento, dice che tende a spingere l’andatura, e ti ritrovi costantemente a regolare l’angolo del tuo corpo in relazione all’inclinazione delle pareti curve.
Nel contempo, però, la scultura dialoga con il luogo ospite, costruendo per il visitatore un traguardo, uno specifico punto di vista: questa spirale culmina in un ampia chiusura orizzontale il cui bordo superiore taglia visivamente un arco nella copertura della sala -dell’architettura-, spingendolo verso il basso nello spazio.
(N.B. Sfortunatamente on line non ho trovato immagini di questo traguardo. D’altra parte, sembra che i fotografi siano quasi tutti affascinati -giustamente- dalle possenti torsioni dell’acciaio, trascurando però -a differenza di Serra- l’esperienza visiva del visitatore, il quale chiuso negli stretti passaggi o nell’occhio dei vortici ha un solo ‘cielo’, un solo orizzonte: gli archi di Gehry oltre l’orlo delle alte pareti)
Di un’altra scultura, Torqued Spiral (Open left Closed Right) del 2003-2004, Serra dice che è più verticale, si muove dentro e fuori, ti comprime, ti trasforma, ti libera. Non è molto lunga, quindi il tuo passo non è così veloce […].
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Il gioco di Serra è proprio qui, tra l’opera di Gehry ambiguamente sospesa tra architettura e scultura e le sue opere -o, meglio, la sua opera, la sua composizione, a sua volta sospesa tra scultura, architettura ed evento-.
I ruoli sono chiari.
Serra compone la coreografia di una danza. Le volute e le spirali delle enormi lastre d’acciaio si lanciano in un fantastico pas de deux con gli archi rampanti e con le volte stupefacenti che coprono l’immensa sala.
La scultura -come fosse l’ètoile, la prima ballerina- s’appoggia all’architettura, la coinvolge, e insieme dirigono la danza del visitatore, ne dettano i passi, i gesti, i movimenti.
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E’ folgorante l’analogia tra il metodo -gli obiettivi, gli strumenti e le logiche- del lavoro di Serra, uno dei più affascinanti scultori viventi, e le metodologie -gli obiettivi, gli strumenti e le logiche- dell’allestimento, le metodologie che abbiamo analizzato, visto e studiato nelle clip: il progetto dell’esperienza fisica, concreta, del visitatore, i tempi e le ragioni del percorso, e poi le soglie, i traguardi, le relazioni tra le opere esposte e tra queste e il luogo ospite… In sintesi, tutto quanto compone la macchina significante, il luogo della mostra… (link clip 00, 10, 13.2…)
L’analogia appare in tutta la sua evidenza anche mettendo a confronto -passo dopo passo- The Matter of Time con quanto scrivevo a proposito dell’allestimento espositivo in un articolo comparso su Rassegna nel 1982.
L’autonomia formale dell’oggetto [di qualsiasi oggetto esposto] è determinata dalla logica del contesto. In uno spazio, comunque sia definito, mostrare uno o più oggetti implica costruire dei contesti, costituire un “insieme espositivo”. La rappresentazione, cioè, viene prodotta dall’interazione simultanea e complessa di differenti sistemi significanti: il linguaggio dell’oggetto ovvero i linguaggi degli oggetti, la logica della loro disposizione in uno spazio, la struttura di questo spazio. […]
Serra, come abbiamo visto e come lui stesso afferma, espone più sculture nella grande sala del Guggenheim, seguendo una logica del contesto. Compone la sua installazione, l’insieme espositivo, facendo interagire le sue sculture tra loro e con l’architettura di Gehry. Dà luogo ad una rappresentazione, alludendo con questo termine sia al significato etimologico, ossia ri-presentazione, sia al significato corrente in teatro, ossia la costruzione di un unico racconto, di uno spettacolo unitario e complesso, attraverso la composizione di più sistemi significanti, di più linguaggi (in teatro, la sceneggiatura, recitazione, scenografie, luci, etc.).
La configurazione orientata dei sistemi rende emergenti sia le relazioni tra gli oggetti, sia le relazioni tra le proprietà loro attribuite. In questa configurazione oggetti e proprietà si rafforzano reciprocamente, esaltando le “uguaglianze”, e si implicano reciprocamente, esibendo le “differenze”.
E’ proprio questo gioco di ruoli e di forme tra le opere e tra queste e l’architettura ospite che può evocare l’immagine di un pas de deux, di una fantastica danza.
La mostra normalmente si articola in più spazi delimitati e in più unità espositive. Le sequenze, vale a dire i modi del passaggio tra le varie unità, sono le fasi del processo attraverso il quale curatore e allestitore [a Bilbao, l’autore stesso] sviluppano la rappresentazione; le strutture di questo processo sono l’ordine della successione e le relazioni rese emergenti.
Sono appunto le sequenze, vale a dire i modi del passaggio tra le varie unità, tra una scultura e l’altra, traguardo dopo traguardo, le fasi e i mezzi con i quali Serra mostra ai visitatori il proprio cammino dal 1995 al 2005.
Nella successione all’esperienza diretta degli oggetti e delle unità espositive si sostituiscono progressivamente immagini ricostruite dalla rappresentazione. […]. All’interno di ogni unità è la sincronicità che connette il dato “esteriore” con il dato “interiore”, l’esperienza diretta dell’oggetto e del suo contesto con le immagini già formate.
Attraverso il processo, dunque, la mostra compone l’esperienza sensibile e la simultaneità con le costruzioni della memoria.
Ed è attraverso questo processo -che lega memoria e presenza- che Serra sviluppa via via un’unica rappresentazione, un’unica opera cui dà nome The Matter of Time.
La mostra è una rappresentazione, sostenevo in quell’articolo, e, in quanto tale, è una delle espressioni del pensiero creativo; il suo possibile senso è dunque nella ricerca di una trasformazione della conoscenza: producendo contesti, relazioni, prospettive nuove, propone nuove costellazioni di materiali, dà nuova forma al passato, può orientare il presente.[11]
A Bilbao, Serra ha prodotto contesti, relazioni, prospettive nuove. Ricomponendo le sue sculture in una nuova costellazione, in una unica e nuova opera che si confronta con Gehry, ne propone una nuova e diversa lettura.
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Riflessioni
L’installazione, cioè la composizione di sculture che Richard Serra intitola The Matter of Time, è universalmente riconosciuta come un’opera d’arte.
Ma se fosse stato chiamato un architetto qualsiasi, o Gehry, per mettere insieme e per disporre quelle stesse sculture in quella stessa sala -arrivando allo stesso o a un diverso assetto è qui irrilevante-, sarebbe stato un allestimento di una mostra o un’opera d’arte? (domanda retorica: in realtà, da Duchamp in poi sappiamo che l’assegnazione della patente d’opera d’arte è monopolio esclusivo dei musei, previa beatificazione da parte della casta dei critici).
Non si tratta, qui, di sottrarre qualcosa a Serra, al suo magistero o alla sua opera. Il punto è un altro: è l’evidenza che arte contemporanea e allestimento -come dicevo- possono condividere -e spesso condividono- obiettivi, metodologie, armamentario.
Non solo. Paradossalmente, l’installazione di Serra potrebbe essere a sua volta un luogo, uno scenario perfetto, per esporre qualsiasi altra cosa (chissà? forse non dipinti o collezioni di farfalle, ma certamente altre sculture, ad esempio, o scheletri di dinosauri, o vetture di Formula 1…), o essere una fantastica idea, il punto di partenza per progettare l’allestimento di una mostra.
Tutto questo induce a pensare che non solo nel caso di The Matter of Time, ma forse in qualsiasi esposizione d’opere d’arte, si possa parlare sia di allestimento dell’arte, sia di arte dell’allestimento.
Ma se questa riflessione è ragionevole, allora, dovremmo forse chiederci se l’allestimento di qualsiasi tipo di mostra sia -in qualche modo- una forma d’arte?
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[9] https://www.artforum.com/print/200507/on-the-matter-of-time-richard-serra-at-bilbao-9409
[10] Cfr. Giovanni Battista Piranesi, le Carceri, ovvero Invenzioni capricciose di carceri, Roma, 1745 e 1761.
[11] Estratto da Logica di una rappresentazione, in Rassegna n°10/1982, pp 12-13
17.1 Enzo Mari, The big stone game, Carrara 1968
https://www.pibamarmi.it/it/_30_255.htm
https://www.architetturadipietra.it/wp/?p=5137
https://luucsonke.nl/Carrara-playground-Enzo-Mari
17.2 gli spioncini
17.3 Enzo Mari, The big stone game, Carrara 1968
ph. Toni Nicolini (?)
https://www.facebook.com/lapianamilano/posts/enzo-mari-the-big-stone-game-carrara-1968-campo-giochi-per-bambini-composto-da-o/1384975015148656/
https://twitter.com/fearofyou/status/1318131643215904768/photo/1
https://daddytypes.com/2011/09/08/the_big_stone_game_og_enzo_mari_playground.php
17.4 Enzo Mari, 16 animali, puzzle per Danese, 1956
17.5 Enzo Mari, il posto dei giochi, per Danese, 1967
17.6 idem
https://www.ideamagazine.net/it/progetto_design/enzo_mari_progetto_e_passione/05jv.htm
https://www.italianarchitecture.org/architecture/enzo-mari-il-posto-dei-giochi-and-cardboard-shelving-system-p8krk
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17.7 Richard Serra, The Matter of Time, Guggenheim Museum Bilbao, 2005
vista d’insieme
https://www.kooness.com/posts/magazine/the-guggenheim-effect
17.8 Richard Serra, Snake, 1994-97
https://www.flickr.com/photos/thierry-clouet/44971557821
https://www.guggenheim-bilbao.eus/en/the-collection/works/the-matter-of-time
17.9 The Matter of Time
progetto esecutivo: planimetria generale
https://issuu.com/gipuzkoatour/docs/revistatm91/s/1168300
17.10 The Matter of Time
maquette di studio
http://www.artnet.com/magazine/news/artnetnews2/artnetnews4-13-1.asp
17.11 The Matter of Time
(Snake, controcampo)
https://smarthistory.org/frank-gehry-guggenheim-bilbao
17.12 idem
(Torqued Spiral, Closed Open Closed Open Closed, 2003)
https://www.guggenheim-bilbao.eus/en/the-collection/works/the-matter-of-time
17.13 idem
https://www.guggenheim-bilbao.eus/en/the-collection/works/the-matter-of-time
17.14 idem
(Torqued Spiral, Closed Open Closed Open Closed, 2003)(
https://www.guggenheim.org/artwork/17146
http://aliciaporamoralarte.blogspot.com/2013/03/