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Trasposizioni – Ulisse – Eterotopie, eterocronie – Separatezza e liminalità – La fabbrica delle illusioni

 

Trasposizioni

Il percorso di visita della mostra appare talvolta rappresentato con una sequenza di frecce, anziché, com’è più frequente, con una linea continua o con le impronte -le tracce- di un immaginario visitatore.

Si tratta di una modalità di rappresentazione che può richiamare alla memoria -o forse cita- le tavole di studio dei flussi che Louis Kahn elaborò nel 1952 per il piano del traffico di Filadelfia, o anche altri progetti meno famosi, comunque inerenti l’assetto della viabilità urbana o territoriale.

La contaminazione tra i due territori non ci deve stupire. I progettisti di allestimenti sono quasi sempre architetti. Ergo, per automatismo, o per deformazione professionale, o per nostalgia d’altri temi, o infine per più o meno consapevole trasposizione transdisciplinare, possono essere tentati dall’idea di affrontare il tema del percorso di una mostra come se questa fosse un pezzo di città.

In effetti, in entrambi i casi, nei piani del traffico e nel progetto del percorso di una mostra, si tratta di rappresentazioni del movimento, operate raffigurando flussi, direzioni e tracciati con segni più o meno convenzionali. Tuttavia, la scelta di questa modalità di rappresentazione in ambito espositivo è certamente appropriata nei piani di esodo [1], ma tradisce -e può indurre- una serie di equivoci o di incomprensioni nel caso del percorso di visita.

L’errore non consiste soltanto nell’assimilare i visitatori ai veicoli, non si limita soltanto alle -pur evidenti- differenze di scala, di mobilità e di velocità, ma investe aspetti perfino più sostanziali.

L’analogia tra le rappresentazioni consente un loro confronto diretto, e attraverso questo confronto possiamo far emergere alcune delle differenze e delle qualità specifiche, distintive delle due situazioni.

 

Ulisse

La prima fondamentale differenza consiste nel fatto che le linee disegnate da Kahn concettualmente congiungono punti. Vanno da un punto all’altro cercando di ridurre ogni attrito, ogni inutile intoppo: la misura della qualità del percorso è data da parametri quantitativi -chilometraggio e/o velocità-. In quest’ottica, tra l’inizio del viaggio e l’arrivo si presenta il bisogno di ingannare il tempo, e si riducono i luoghi attraversati a mera misura della distanza ancora da coprire. L’optimum sarebbe, se fosse possibile, il teletrasporto istantaneo della fantascienza.

Ergo, si può anche idealizzare correttamente la rappresentazione di questo tipo di viaggio eliminando la materia della città e lasciando esclusivamente il disegno dei flussi -le frecce- su un foglio di carta bianca.

Nel percorso della mostra, al contrario, l’inizio e la fine sono solo dei margini. Quello che conta, la mostra, è tutto all’interno di quei margini. La mostra è tutto quello che accade durante il percorso.

 

Quando ti metterai in viaggio per Itaca


devi augurarti che la strada sia lunga, 


fertile in avventure e in esperienze.

[…]

Soprattutto, non affrettare il viaggio; 


fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio


metta piede sull’isola, tu, ricco


dei tesori accumulati per strada


senza aspettarti ricchezze da Itaca.

[…]

Come la vita nella poesia [2] di Kavafis, la mostra è il viaggio -magari più breve e meno drammatico di quello di Ulisse, si augurano probabilmente i visitatori-, non l’arrivo. Così come il piacere della visione di un film non sta nel suo -quasi scontato- lieto fine, ma nelle emozioni associate alle disavventure necessarie per giungere a quell’esito.

In questo caso, allora, non è possibile idealizzare la rappresentazione: cancellando la materia della mostra, il tracciato del percorso -delle frecce- sarebbe semplicemente insensato.

Se nella viabilità urbana, tra la partenza e l’arrivo, la vita appare sospesa nei non-luoghi della distanza e nel non-tempo dell’attesa, nella mostra accade -ed è necessario che accada- esattamente il contrario. Estrapolando le parole di Mies van der Rohe a proposito delle grandi esposizioni, si può dire che queste -e, per estensione, tutte le mostre- hanno significato e si giustificano solo se si danno come compito l’intensificazione della vita. [3]

La mostra è, o dovrebbe essere, un luogo -cioè uno spazio- e una circostanza -cioè una condizione- nei quali ogni istante è il teatro di un’esperienza complessa e avvolgente.

Guardando bene, questa differenza si rispecchia coerentemente nella struttura delle due rappresentazioni.

Nel caso di Filadelfia appaiono molti fili d’Arianna, che si sommano o si dividono lungo tracciati e direttrici diverse, in un sistema complessivo comunque aperto -il quale, essendo parte di una rete quasi neuronale, connette città, territorio, stato, mondo-.

Nel caso della mostra, invece, come negli spazi espositivi di un museo o di una fiera, un unico filo -o un intreccio coeso di più fili- disegna comunque e sempre un sistema chiuso. Raffigurate nel disegno, le frecce, le impronte dei passi dei visitatori, o il filo d’Arianna, descrivono di norma tracciati schematicamente anulari, poiché vi è sempre una linea che unisce un ingresso a un’uscita, e questa linea quasi sempre si richiude nello stesso atrio che, opportunamente, ospita la biglietteria, spesso il bookshop, il guardaroba e altre funzioni di accoglienza, informazione, sorveglianza.

Poi, a una scala di lettura più dettagliata, l’anello generale si adatta all’articolazione degli spazi espositivi, e, richiuso all’interno di ognuno di essi, può apparire composto da tracciati bustrofedici -come quelli disegnati nelle corsie di un padiglione fieristico da visitatori meticolosi- e/o da anelli concatenati in successione -disegnati da chi di ogni sala, per esempio in un museo, percorre tutto il perimetro-.

Il gioco delle rappresentazioni fa emergere una qualità della mostra. L’anello -in sé non necessario- è soltanto la rappresentazione di questa qualità, questa sì essenziale: la mostra, per dialogare col mondo, si chiude su se stessa. Deve chiudersi su se stessa. Deve costituire un luogo chiuso, separato.

Occorre comprendere le ragioni profonde di questa qualità, di questa necessità, e molte delle implicazioni che si nascondono dietro di essa.

 

Eterotopie, eterocronie

In una conferenza radiofonica [4] del 1966 Foucault spiega come in ogni società esistano dei “luoghi” assolutamente differenti, che hanno la proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati [5]. Sono le utopiespazi privi di un luogo reale-, e quelle che lui denomina, in opposizione alle utopie, eterotopie -luoghi effettivi, ma che costituiscono una sorta di contro-luoghi-.

Le eterotopie sono luoghi reali fuori da tutti i luoghi, come i giardini, i cimiteri, i manicomi, le case chiuse, le prigioni, i villaggi del club Méditerranée, e molti altri.

Delle eterotopie -e di quella che Foucault chiama, forse non senza autoironia, la nascente scienza dell’eterotopologia- enuncia anche alcuni principi costitutivi generali e ricorrenti.

1) Probabilmente non esiste alcuna società che non si faccia la sua eterotopia o le sue eterotopie.

2) […] La stessa eterotopia può, in base alla sincronia che possiede con la propria cultura, sviluppare un funzionamento piuttosto che un altro[6]

3) L’eterotopia ha come regola generale quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili. [7]

4) Le eterotopie possono essere connesse a delle strane suddivisioni del tempo. Sono affini […] alle eterocronie. [8]

5) Le eterotopie hanno sempre un sistema di apertura e di chiusura che le isola nei confronti dello spazio circostante. [9]

Legato a quest’ultimo principio, si arriva a ciò che c’è di più essenziale nelle eterotopie. Esse sono la contestazione di tutti gli altri spazi, e questa contestazione si può esercitare in due modi: o creando l’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come illusione […], oppure creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico.

Per inciso, da tutto questo emerge come il concetto di eterotopia sia inseparabile dal concetto di istituzione -e dalla realtà e conformazione delle istituzioni in ogni società-, e che ogni riflessione sull’eterotopia dovrebbe confrontarsi anche con il concetto di dispositivo che Foucault sviluppa altrove e parallelamente.

Sembra del tutto evidente anche che ognuno dei principi costitutivi dell’eterotopia appare strettamente interrelato con gli altri e che tutti trovano riscontro, con caratterizzazioni diverse, nell’istituzione -nel dispositivo– oggetto qui del nostro interesse.

La mostra -pur non presente tra i contro-spazi di Foucault- appare del tutto assimilabile a un’eterotopia. E’ rovesciando il gioco, attraverso i connotati di questa, che possiamo mettere in luce, per analogia e/o per differenza, alcune qualità essenziali della mostra.

 

Separatezza e liminalità

Riprendendo il filo delle considerazioni da cui si è partiti -e partendo dagli ultimi e fondamentali principi di Foucault- la mostra, l’eterotopia che chiamiamo mostra, è -deve essere- chiusa in sé, separata dal mondo. Chiusa vuol dire che vi sono chiari confini, un dentro e un fuori, un prima e un dopo una soglia. L’ingresso e l’uscita della mostra, i varchi, sono soglie, liminalità tra stati di realtà diversi.

Si ha la tentazione di dire che la mostra sia, in immagini, una metafora del ‘discorso’, e che, come il discorso, sia uno strumento del pensiero che può diventare forma e dotarsi di un ordine perfetto soltanto al prezzo di selezionare severamente le componenti messe in gioco e di escludere la congerie del mondo -tutto l’altro– al di fuori del proprio orizzonte.

La separatezza dal resto del mondo è cioè la condizione che consente di distillare le componenti della rappresentazione, di costruire un sistema di metonimie [10] grazie al quale queste componenti, circolarmente connesse alla rappresentazione che le contempla e che esse stesse materializzano, possono proporsi come un modello del mondo, o di un mondo.

La chiusura è la conditio sine qua non affinché ogni componente, qualsiasi cosa presente nella mostra, sia parte integrante di una macchina che diventi inevitabilmente significante, perché gli oggetti esposti e i media per esporli costituiscano unitariamente la struttura espositiva. [11]

E’, in breve, la condizione che consente alla mostra di essere il giardino incantato -o il tappeto volante- nel quale tutto il mondo realizza la sua perfezione simbolica[12]

Non sembra sia stato ancora adeguatamente studiato quanto di rituale e di simbolico si manifesti nella pratica sociale delle mostre.

La mostra temporanea, ha proprietà molto diverse dall’esposizione, cosiddetta permanente, di un museo ‘tradizionale’.

Il museo è, come dice Foucault, un’eterotopia dell’eternità, dell’accumulo del tempo infinito, ovvero, in termini ‘poetici’, un tempio della memoria, o, in termini ‘prosaici’, una sorta di surgelatore per conservare qualcosa da consegnare alla posterità. [13]

La mostra è un’istantanea destinata esclusivamente hic et nunc ai contemporanei. E’ anch’essa un’eterotopia dell’eternità, ma dell’eternità che appare nella pienezza dell’attimo, nel suo essere effimera e irripetibile. E’ questa sua prerogativa -il suo essere effimera e irripetibile-, non solo i confini spaziali -il suo essere un fuori luogo, uno spazio altro-, a fare della mostra un fenomeno liminale.

Se i musei tradizionali congelano lo status quo di una società o di cultura che si autocelebra, la mostra trova nei suoi stessi limiti il potere di produrre uno scarto, una trasgressione, attraverso la quale aprire una riflessione o un giudizio -provvisori quanto perentori- su quella cultura, o su suoi aspetti.

Così come il luogo della mostra, per costituirsi, deve necessariamente essere estraniato da tutti gli altri luoghi, anche cose o eventi esposti subiscono un’estraniazione e una pressoché totale destrutturazione.

La mostra è il recinto al cui interno possono essere sospesi o aboliti i codici cui gli oggetti esposti appartengono, ma l’oscillazione o anche la perdita del significato legato a quei codici è la precondizione di ogni loro possibile reinterpretazione.

Il recinto isola e contiene il contagio del caos, dell’indifferenziato. Per il tempo della mostra, l’allestimento -come un pentacolo di cartapesta, o come una maschera carnevalesca- reintegra gli stessi oggetti in un ordinamento che può prendersi la libertà di essere, proprio per la sua breve durata, anche del tutto sovversivo, paradossale, abnorme, in sostanziale -o apparente- rottura con le regole dell’ordine costituito.

Poi, alla fine della mostra può accadere che la rottura porti a stabilire nuove regole -in realtà, ancora e solo provvisoriamente- durature, oppure che l’ordine costituito venga ripristinato -e la mostra rimossa-.

L’esperienza del visitatore può seguire lo stesso cammino, dallo spaesamento iniziale al riconoscimento di un nuovo possibile ordine.

La liminalità della mostra sta anche nel suo porre il visitatore -ma anche gli operatori- in mezzo e nell’attesa tra l’ordine preesistente e il nuovo possibile ordine. Sta nel suo essere un luogo dove il tempo si condensa in un’intensità estrema, un luogo della singolarità e della irripetibilità, un non-luogo intermedio della decostruzione del sapere e della sua ricostruzione, della trasformazione e della trasmissione della conoscenza.

L’eterocronia e l’eterotopia della mostra appaiono dunque anche nel suo poter essere un tempo e uno spazio, un rito e una festa, di passaggio, di trasformazione, di rigenerazione.

 

La fabbrica delle illusioni

Anche le altre connotazioni dei principi enunciati da Foucault trovano eco nella mostra. D’altra parte, questi principi non sono semplicemente interrelati tra loro, sono invece, a ben vedere, aspetti diversi -e diversamente ricorrenti- di un’unica sostanza.

La mostra è l’eterotopia -e qui vale a dire lo specchio- di una società che è viva in quanto perennemente provvisoria, eppure sempre tendenzialmente conservatrice e autoidentitaria. Può essere l’espressione di una contemporaneità che è tale finché non si illude di fermarsi, fin quando resta, in bilico tra passato e futuro, paradossalmente inattuale.

E ancora, la mostra è sempre costruzione di un luogo effimero in un altro luogo, -che si dà- permanente: questo, il luogo ospite, può essere, secondo i casi e le opportunità, incluso o escluso nei confini della mostra, accettato o contestato. In ogni caso, l’effimero è ogni volta provvisoriamente definitivo, totalizzante.

Richiudendosi su se stessa e separandosi da tutto, la mostra può -deve, questo è l’ultimo essenziale connotato dell’eterotopia- creare l’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come illusione, oppure creare realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico.

Entrambi i luoghi, l’effimero e il duraturo, la scena e il teatro, sono spazi dell’illusione, di illusioni diverse, o forse di giochi speculari intorno alla stessa illusione. La diversità si annida nelle prospettive che il primo, l’effimero, chiudendosi su se stesso, apre, e che il secondo il -se dicente o volente- permanente, aprendosi, chiude.

L’ultimo connotato dell’eterotopia configura la separazione, o meglio, la spaccatura, come una scelta programmatica.

La costruzione di qualsiasi ordine o di qualsiasi identità può essere fondata sulla contrapposizione tra ordini o identità dati per diversi.

Anche su questa base si fondano le strategie comunicative usate per innescare processi di partecipazione, di adesione, anche di catarsi collettiva. Queste strategie, di cui si trova espressione, ad esempio, nelle grandi parate e nelle cerimonie curate da Albert Speer per il nazismo -documentate magistralmente anche nei lungometraggi di Leni Riefenstahl-, così come in molte cerimonie laiche o religiose, pur ben diverse nelle loro finalità -sì che si vorrebbe distinguere le pratiche diaboliche da quelle divine-, non appaiono sostanzialmente diverse da quelle messe in atto in una mostra. [14]

E’ di nuovo il tema della fabbrica delle illusioni. La mostra è uno spazio illusorio e dell’illusione. A volte, lo dichiara apertamente, e può far supporre che non solo l’ordine che essa stessa propone, ma qualsiasi idea d’ordine forse è un’illusione.

Questo però vuol dire che quanto di trasgressivo appare nella mostra può essere usato, in una prospettiva più ampia, sia per aprire nuove prospettive del sapere, sia per esorcizzare questo rischio, richiudendo nella sua effimera bolla ogni -virtualmente- sostanziale apertura.

Foucault conclude l’intervista con un’immagine che tutto sembra riassumere.

La nave è l’eterotopia per eccellenza. E’, infatti, un pezzo di spazio vagante, un luogo senza luogo che vive per se stesso, chiuso in sé, libero per certi aspetti, ma fatalmente consegnato all’infinito del mare.

Non sembra affatto un caso, alla fine, che la parola allestimento designi il processo e l’esito della produzione, parimenti, di spettacoli teatrali, di mostre e, appunto, di navi. Ciò che accomuna questi luoghi -o più correttamente: contro-luoghi- è l’idea di un viaggio, di un’avventura, altrove.

Roba, insomma, da guitti, marinai, o geni usciti dalla lampada.

 

 

[1] Lo studio dei flussi e la relativa rappresentazione grafica con le frecce sono codificati, e normalmente utilizzati, nella prefigurazione e nel dimensionamento dei percorsi di fuga nei piani di emergenza relativi ai “locali di pubblico spettacolo”, ivi comprese le sedi di manifestazioni espositive.

[2] Kostantinos Kavafis, Itaca, in Cinquantacinque poesie, Torino.

[3] Mies van der Rohe, Zum Thena: Austellungen, in Die Form, anno III, n°4, 1928.

[4] Michel Foucault, Utopie Eterotopie, trad. it. a cura di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2006. Della stessa conferenza Foucault curò una seconda versione nel 1967, edita postuma nel 1984, pubblicata in Spazi altri, trad. it. a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis, Milano 2002. Qui di seguito si fa riferimento in generale alla prima versione, salvo alcuni passi -perciò segnalati-, ove il testo riveduto appare di maggiore chiarezza.

[5] S. Vaccaro, Spazi altri, pag. 23.

[6] S. Vaccaro, Spazi altri, pag. 26.

[7] Chiariscono questa regola due eterotopie: i teatri e i giardini. Nel teatro, dice, si susseguono sul rettangolo della scena tutta una serie di luoghi estranei. Riflettendo sul fatto che i tappeti orientali erano inizialmente riproduzioni di giardini […], si comprende il valore leggendario dei tappeti volanti […]. Il giardino è un tappeto nel quale tutto il mondo realizza la sua perfezione simbolica, e il tappeto è un giardino che si muove attraverso lo spazio.

[8] Se, ad esempio, i cimiteri sono i luoghi dove il tempo si è fermato, biblioteche e musei costituiscono eterotopie del tempo che si accumula all’infinito. Altre eterotopie sono egualmente in relazione col tempo, ma non nel modo dell’eternità, bensì nel modo della festa: il teatro, le fiere e i villaggi vacanza. Altre ancora sono legate al passaggio, alla trasformazione, alla fatica di una rigenerazione: tra queste inscrive i collegi e le caserme -il cui compito nell’ottocento era di trasformare i bambini in adulti, i paesani in cittadini, gli ingenui in smaliziati-, e, oggi come sempre, le prigioni.

[9] Sono perciò connesse, secondo Foucault, a visioni o attività in qualche modo religiose, a riti e a purificazione. Qui troviamo gli hammam musulmani e le saune scandinave.

[10] Se, per esempio, pensiamo a un museo archeologico o ad una mostra d’arte, l’esposizione può essere chiamata a rappresentare la conoscenza circa un’intera cultura o circa la personalità di un artista attraverso l’ordinamento di relativamente pochi pezzi all’uopo selezionati. Dunque, la metonimia, qui nella forma di “una parte per il tutto”, è la strategia messa in atto per creare o confermare -e comunque per trasmettere- una conoscenza.

[11] concetto di macchina significante, cfr. Il potere della mostra, primi tre capoversi.

[12] Cfr. nota 7.

[13] Non si vuole qui ridurre l’importanza del museo tradizionale. Le funzioni che assolve -ben oltre l’esposizione- sono essenziali per raccogliere, conservare e consentire lo studio di ogni genere di beni culturali. Si vuole solo osservare che il museo è quasi sempre un’istituzione che nel corso del tempo ha accumulato collezioni disparate, donazioni, rimanenze, reperti anche casuali: dunque, pur se dedicato a un ambito specifico, non ha quasi mai un autentico controllo sui suoi materiali, e perciò non ha quasi mai la possibilità, solo con questi, di realizzare esposizioni esaurienti a partire da una tesi.

Il problema è talmente sentito che non soltanto molti musei storici si sono dotati di spazi destinati a mostre a tema, di breve durata, nelle quali sia possibile comporre pezzi delle proprie collezioni con altri presi in prestito, ma sono stati istituiti nuovi musei perfino senza proprie collezioni, la cui attività espositiva si risolve esclusivamente in mostre temporanee.

[14] Cfr. anche Il potere della mostra, nella descrizione del primo assioma.