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Il potere della mostra – ossia, l’impossibilità di non comunicare

 

La mostra ha una fondamentale proprietà.

Qualsiasi cosa vi sia presente -ogni oggetto esposto, ogni elemento dell’apparato espositivo, ed anche ogni elemento pur se solo casualmente presente- viene metabolizzato come parte di una sistemazione logica complessiva, diviene parte integrante della macchina significante. In breve, diventa una componente della mostra.

Qualsiasi oggetto o qualsiasi evento esposto in una mostra, non diversamente dall’orinatoio-fontana nell’intenzione di Duchamp, diventando parte integrante della macchina significante, inevitabilmente viene letto e/o accettato dai visitatori come dotato di un senso, di un significato, di un valore.

Rovesciando la prospettiva, la stessa proprietà della mostra può essere formulata in modo diverso: il dispositivo mostra, la macchina significante, non può evitare di conferire -o di far conferire da parte del visitatore- un senso ad ogni cosa presente.

Se al centro dell’attenzione poniamo l’azione umana, nella prima formulazione il soggetto agente sembra essere il visitatore. E’ lui che assume ogni cosa presente nella mostra come parte di una sistemazione logica. Le sue attese -quanto porta con sé entrando in una mostra- costituiscono in qualche modo delle domande, cui la mostra è chiamata a rispondere.

Nella prospettiva rovesciata si può intendere, invece, che il soggetto siano gli autori della mostra: organizzatore, curatore, allestitore. Attraverso operazioni complesse, sono loro a conferire -e/o a indurre il visitatore a conferire- senso e significato ad ogni cosa o evento presenti.

Ma queste due letture sembrano in realtà punti di osservazione diversi di un unico fenomeno.

Al centro delle possibili letture resta la macchina dell’esposizione -la macchina significante-, una sorta di meccanismo che sembra determinare l’azione di tutti gli attori, sia dei visitatori, sia degli autori.

Allora, a ben vedere, questa proprietà coincide con un potere. Un potere riconducibile soltanto parzialmente al bisogno di senso che accomuna curatore, allestitore e visitatore della mostra.

Un potere i cui modi di esercizio e la cui fonte possono essere indagati in modi differenti.

Se ammettiamo che la mostra possa essere intesa anche come un medium di comunicazione, una chiave di interpretazione di quel potere può essere trovata nella struttura delle relazioni, o, più precisamente, dei comportamenti reciproci, dei soggetti in essa coinvolti.

Negli anni ’60 del secolo scorso, gli psicologi della cosiddetta scuola di Palo Alto, il più noto dei quali è Paul Wazlawick, studiarono gli effetti pragmatici, cioè comportamentali, della comunicazione umana, e, nell’ambito delle loro ricerche su tale materia, tentarono anche di fissarne alcuni assiomi [1].

 

Il primo assioma – non si può non comunicare.

Il concetto è che qualsiasi atto compiuto nell’ambito di una operazione comunicativa diventa un atto di comunicazione. L’attore che sul palcoscenico, di fronte al pubblico, resta perfettamente immobile e zitto, sta recitando, sta, cioè, comunicando qualcosa. La situazione complessiva -il teatro, la scena, il contesto dell’azione- dichiarano che sta ‘dicendo’ qualcosa, il cui senso va trovato nella situazione stessa.

Il primo assioma di Wazlawick, trasportato nel nostro territorio, dà corpo alla proprietà -al potere- che abbiamo descritto: significa che il comportamento degli autori di una mostra, vale a dire qualsiasi atto o scelta a loro attribuibile all’interno della mostra, ha valore di messaggio, e che come tale viene assunto dai visitatori.

E’ per questo che, parafrasando le parole di Wazlawick, il dispositivo mostra non può non comunicare, non può non conferire -o non far conferire da parte del visitatore- un senso ad ogni cosa presente.

Allora possiamo comprendere meglio, ad esempio, una delle ragioni per cui le grandi mostre -e anche, pur con significative differenze di liturgia e d’allestimento, le grandi parate e adunate di massa- siano state adottate dal nazifascismo -e non solo- come efficacissimo strumento di propaganda politica e culturale. La straordinaria tradizione dell’allestimento espositivo italiano, sostanzialmente unica nel panorama internazionale, deve la sua nascita, durante il ventennio, ad un regime che aveva uno dei suoi punti di forza nella manipolazione del consenso tramite il controllo o la gestione di tutti i media di comunicazione.

La lezione della storia ci deve far riflettere, dunque, se mai ce ne fosse bisogno, sulle responsabilità etiche e morali implicite nel lavoro di chi opera in questo settore.

 

Il secondo assioma – ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto [‘notizia’, in originale, report] e un aspetto di relazione [‘comando’, command], di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.[2]

Wazlawick porta come esempio la comunicazione tra un operatore e un organismo artificiale, quale può essere un computer. Per far fare una moltiplicazione ad un calcolatore, bisogna dargli un’informazione (le due cifre) e l’informazione su tale informazione: il comando “moltiplicale”. L’informazione sull’informazione -le istruzioni- è di grado logico più elevato della prima, ed è dunque metainformazione.

Nella comunicazione umana, esiste […] lo stesso rapporto tra l’aspetto di ‘notizia’ e quello di ‘comando’: il primo trasmette i ‘dati’ della comunicazione, il secondo il modo in cui si deve assumere tale comunicazione. “Questo è un ordine” oppure “Sto solo scherzando” sono esempi verbali di comunicazioni sulla comunicazione, ma si può esprimere la relazione anche in modo non verbale (gridando, sorridendo, etc.).

 

Se applichiamo alla mostra questa distinzione, ne viene che alla ‘notizia’ e al ‘comando’ corrispondono rispettivamente le cose o eventi esposti e l’allestimento.

Allora, con questa impostazione, trovano posto in un quadro teorico coerente -benché appartenente a una riflessione diversa, e dunque per analogia- altre nozioni alla base del mostrare.

La prima è che la mostra, in quanto medium, non si limita a esporre cose o eventi, ma ha il potere di determinare -o manipolare- le condizioni del loro ‘uso’ tramite l’allestimento. Non solo: coniugato al primo assioma, il secondo significa che la mostra non può esimersi dall’esercitare questo potere. Non può in alcun caso essere “neutrale” nei confronti di quanto espone.

La seconda nozione, implicita nella prima, è che l’allestimento nei modi suoi propri, anche e soprattutto non verbali, fornisce al visitatore le istruzioni per ‘usare’ -dunque anche per comprendere- le cose o eventi esposti. Da un lato, riappare un concetto –che da anni riteniamo- fondamentale: il progetto dell’allestimento è il progetto dell’esperienza che il visitatore farà di cose o eventi esposti.

Dall’altro lato, se l’informazione -le istruzioni- sull’informazione è […] metainformazione, allora l’allestimento agisce come un metalinguaggio [3] su tutti i linguaggi presenti e coagenti nella mostra. Non solo: nel suo operare come un metalinguaggio risiede il potere di condurre nell’universo del linguaggio -e, dunque, della produzione di senso- tutto ciò cui si applica.

La terza nozione, di conseguenza, è -quasi banalmente- che il contenuto della mostra non si esaurisce nelle cose o eventi esposti, ma è costituito propriamente dall’insieme di questi e dal loro allestimento, cioè dalla ‘notizia’ e dal ‘comando’, dall’informazione e dalle istruzioni su di essa.

La mostra cela il suo reale potere dietro l’apparente innocenza di quanto espone.

 

Il terzo assioma – la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti[4]

Semplificando, si può dire che uno scambio più o meno prolungato di messaggi tra due comunicanti può essere letto come una sequenza ininterrotta.

Tuttavia, i comunicanti “punteggiano” sempre la sequenza, vale a dire la percepiscono come composta di segmenti al cui interno l’interazione appare come un processo stimolo/risposta -o, in termini generici, azione/reazione-, e, con questo ordine, si attribuiscono reciprocamente ruoli differenti.

Ma se spostiamo la lettura di un’unità, i ruoli -l’azione e la reazione- appaiono rovesciati. In una sequenza sufficientemente lunga, ogni evento della sequenza è simultaneamente -o è interpretabile come- stimolo e risposta, azione e reazione: le attribuzioni di ruolo dipendono esclusivamente dal modo di ordinare la punteggiatura degli eventi. Il topo che ha detto: “Ho addestrato il mio sperimentatore. Ogni volta che premo la leva mi dà da mangiare” stava cortesemente rifiutando di accettare la punteggiatura della sequenza che lo sperimentatore cercava di imporgli[5]

In una prospettiva diversa, e quindi con significati differenti, si ripresenta qui, descritta esattamente, la situazione dei piccioni nella scatola di Skinner [6], e per analogia, quella dei visitatori di una mostra.

Appare che è meno rilevante stabilire se la sequenza azione/reazione cominci dalle attese dei visitatori o, piuttosto, dalle scelte programmatiche degli autori. Più rilevante è prendere atto che entrambi –visitatori e autori- si trovano in un meccanismo di interazione, che il primo assioma -l’impossibilità di non comunicare- rende inevitabilmente comunicativo: si ripresenta cioè, in una formulazione diversa, la macchina significante.

 

La differenza dei ruoli non è dunque inscritta in una sequenza di azione/reazione, ma, a monte di questa, appare costitutiva del meccanismo.

Il quinto assioma – tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza[7]

Nella mostra, non vi è parità tra visitatori e autori. Rispetto a cose o eventi esposti, i rapporti tra i visitatori e autori sono tutt’altro che simmetrici.

Il visitatore può ‘interrogare’, e dunque diversamente interpretare, cose o eventi comunque fissati nella disposizione stabilita dagli autori, ma non può disporli o comporli diversamente.

Nella diversità dei ruoli emerge d’altra parte la condizione della loro dipendenza reciproca: i ruoli diversi si richiamano a vicenda in un tipo di relazione che, perciò, Watzlawick definisce complementare.

Relazioni complementari sono, ad esempio, quelle madre-figlio, medico-paziente, o insegnante-allievo […]. Occorre comprendere che non sono l’esito di un’imposizione, ma si configurano -e sono sostanzialmente condivise- in un contesto che può essere sociale e culturale: un partner -scrive Watzlawick- non impone all’altro una relazione complementare, ma piuttosto ciascuno si comporta in un modo che presuppone il comportamento dell’altro, mentre al tempo stesso gliene fornisce le ragioni.

Allora, possiamo dire che nel contratto non scritto tra visitatori e autori di una mostra è implicita una relazione complementare, fondata sulla diversità dei loro ruoli. Una diversità non imposta con un atto di forza, ma riconosciuta da entrambi in un contesto sociale e culturale.

Una diversità sancita istituzionalmente.

 

Il quarto assioma non si presta immediatamente, come gli altri, ad una interpretazione del potere della mostra, ma -attraverso i nessi che lo legano agli altri assiomi- contribuisce a dispiegarne i modi dell’azione e le ragioni dell’efficacia.

Il quarto assioma – gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia, ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica, ma non ha alcuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.

 

Muovendo il ragionamento dai sistemi di elaborazione operanti nei calcolatori, che possono essere, appunto, analogici o numerici -o digitali-, e implicitamente riconoscendo la loro origine nell’umano, Watzlawick propone un’equivalenza tra questi sistemi e, rispettivamente, le forme di comunicazione non verbale e verbale.

Nella comunicazione umana -scrive infatti- si hanno due possibilità del tutto diverse di far riferimento agli oggetti (in senso esteso): o rappresentarli con un immagine (come quando si disegna), oppure dar loro un nome […].

Il secondo -il linguaggio verbale- è quasi insostituibile per scambiare informazioni denotative sugli oggetti, e a trasmetterne la conoscenza, ma è tuttavia pressoché privo di significato nell’universo delle relazioni, la cui natura può essere definita quasi esclusivamente dal primo. Questo -il linguaggio analogico-, invece, non disponendo di nulla che equivalga a elementi del discorso […] come ‘se/allora’, ‘o/o’, non disponendo, cioé, di una sintassi confrontabile con quella della parola-, non può evitare di essere comunque ambiguo.

Tuttavia, l’uso della comunicazione analogica è infinitamente più antico della parola, affonda le sue radici nelle nostre origini animali, ed ha perciò una validità molto più generale del modulo numerico della comunicazione verbale, […] [9]. Se il nostro corpo -e dunque l’esperienza- parla il linguaggio analogico, allora possiamo dire che l’ambiguità inesauribile del linguaggio analogico può essere vista come il prezzo -o il contrappeso- di una ricchezza espressiva e di significati altrettanto inesauribile nelle parole, pur ricorrendo a tutte le parole del mondo.

Leggendo la differenza tra questi due sistemi -o modalità- alla luce del secondo assioma, per il quale ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, Watzlawick non può evitare di risolvere l’apparente dicotomia tra linguaggio numerico -o verbale- e linguaggio analogico -o non verbale-, considerandoli reciprocamente complementari, nel senso del quinto assioma, quasi proponendo –o auspicando- un equilibrio tra loro.

Nella mostra, con tutta evidenza sono compresenti entrambi i moduli di comunicazione. Sono certamente complementari, ma non appaiono in equilibrio tra loro. La presenza del linguaggio verbale, la sua capacità di affermare, negare, denotare, è -deve essere, perché la mostra funzioni- seconda, minoritaria. Il suo ruolo -forse non solo nella mostra- consiste nell’arginare l’inesauribilità di senso delle forme, dei fatti, delle figure, di relazioni e connotazioni rivelati dal linguaggio analogico. Il suo compito è ricondurre alla ragione -a una ragione, allora pilotabile-, la forza e la seduzione, l’ambiguità coinvolgente in cui s’immerge l’esperienza fisica del visitatore.

Qui, non nelle parole, può risiedere -se c’è, quando c’è- il fascino della mostra [11].

 

 

 

[1] P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, Don D.Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971, pag. 41

[2] P. Watzlawick, Pragmatica …, pag. 44.

[3] Cfr. anche cap. 1, pag. 28, in riferimento all’etimo della parola allestimento.

[4] P. Watzlawick, Pragmatica …, pag. 52.

[5] P. Watzlawick, Pragmatica …, pag. 48, cit. Bateson, Gregory, Jackson, Don D., Some varieties of pathogenic Organization.

[6] In breve, Skinner rinchiuse alcuni piccioni in altrettante scatole, realizzate in modo tale da escludere ogni contatto con l’esterno. Quindi, nelle scatole venivano immessi a cadenza costante dei chicchi di mangime. Dopo un certo arco di tempo, ogni piccione arrivava ad associare l’arrivo del cibo con un determinata sequenza dei propri movimenti: fare un passetto a destra, o lisciarsi una penna, o girare il collo, etc.. Alla fine dell’esperimento, si assisteva alla scena –ai nostri occhi evidentemente privi di autoironia, un po’ assurda- di tanti piccioni, ognuno dei quali impegnato in una sua sorta di danza parossistica, per l’illusione, così facendo, di far apparire il cibo.

[7] P. Watzlawick, Pragmatica …, pag. 62.

[9] P. Watzlawick, Pragmatica …, pag. 55

[11] Lasciando correre l’immaginazione fuori dai binari di queste riflessioni, si può pensare a quanto del mondo intorno a noi ci sfugga, perché immersi nelle parole. Forse, alla fine, come si è detto in altra sede, ragionando sull’etimo della parola luogo, riusciamo a vedere solo quello che riconosciamo, solo quello che possiamo nominare. Con l’avvento della scrittura, il mondo dei nomi, delle parole, forse ha sostituito il mondo del corpo e di tutti i suoi sensi. Chissà se è stato l’avvento della civiltà delle parole scritte, se è stato l’avvento degli dei del verbo, a ridurre al silenzio gli oracoli -le voci degli antichi dei- e poi a rimuovere gli antichi dei stessi, quelli che avevano un corpo forse fatto anche di carne.

Da questo punto di vista, appare una diversa forma di metonimia -intesa come strumento di rappresentazione del mondo-: la mostra, con le sue metonimie fatte di cose o eventi sembra un antidoto alle parole, riconducendoci alla magia sensibile delle cose.