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Intervista

in Nuovi linguaggi e forme tecnologiche nell’exhibit design a cura di Raffaella Trocchianesi

 

Una riflessione sul ruolo delle tecnologie e delle tecniche nell’allestimento espositivo può aprire molte linee di indagine, ognuna delle quali fa scorgere nuove domande, nuove prospettive e ulteriori ambiti di riflessione, ed ognuno di questi permette di comprendere alcuni tratti essenziali dell’esporre offrendo molti stimoli alla progettazione.

 

D’embléè, può convenire preliminarmente suddividere il tema delle relazioni tra allestimento e tecnologia: da un lato il rapporto tra tecnologie e allestimento in generale, in sede storica, dall’altro il ricorso, oggi, alle tecnologie digitali.

Cominciamo dalla storia.

Il primo vero padiglione espositivo temporaneo di cui io abbia notizia fu progettato da Bernardino Maccaruzzi nel 1777 a Venezia, per dare nuova e nobile veste alla Fiera della Sensa.

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il progetto di Maccaruzzi nell’incisione di Pietro Gasparri e Antonio Baratti

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La nuova Fiera della Sensa, Gabriel Bella, 1780-1790

L’edificio era provvisorio: montabile in cinque giorni e smontabile in tre, fu riutilizzato per quasi vent’anni.

Sembra fosse in grado di ospitare nei propri spazi oltre 100 espositori, riservando il fronte interno dell’ellisse agli sponsor più importanti e quello esterno agli altri.

Era realizzato con tecniche e materiali (legno e gesso) non così lontane dalle nostre cosiddette “tradizionali”, illuminato da lampioni e decorato secondo il gusto del tempo con stucchi, statue, pitture e marmorini che simulavano marmi, pietre, intonaci e rilievi preziosi.

Dunque, tecniche relativamente umili e precarie erano utilizzate per presentare le merci in uno scenario adeguato –o simulato- allo stile di vita della nobiltà e dei ricchi mercanti, cioè dei potenti di quell’epoca, individuati diremmo oggi come target.

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Piazza S.Marco parata per la Festa della Sensa, Francesco Guardi

 

Settant’anni dopo, nel 1851, si inaugura a Londra la prima grande esposizione internazionale.

Il Crystal Palace, che la ospita, progettato da Joseph Paxton, è una fantasmagoria di acciaio e vetro di circa 540 metri per 120.

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E’ anche questo ovviamente un edificio temporaneo: alla fine dell’esposizione fu smontato da Hyde Park e rimontato a Sydenham, nella periferia di Londra, dove è rimasto fino al 1936, quando fu distrutto da un incendio.

A Londra, come poi nel 1889 a Parigi per l’esposizione internazionale -che vide costruire la torre Eiffel-, l’esibizione della tecnologia dell’acciaio è fondamentale per l’autorappresentazione del mondo borghese, per identificare il futuro e l’idea del progresso con il capitalismo, con l’industria, con il nuovo vincente ordine sociale.

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Da Venezia a Londra cambiano le tecnologie, sembra apparentemente cambiare tutto, ma la logica è la stessa: le esposizioni producono architetture effimere nelle quali tecnologia e allestimento, inseparabili, sono declinati per rappresentare –o illudere- l’identità dei destinatari.

 

Ma da Londra in poi, “le esposizioni trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre.

L’industria dei divertimenti gli facilita il compito, sollevandolo all’altezza della merce. Egli si abbandona alle sue manipolazioni, godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri.[1]

Dalle parole profetiche di Benjamin –si pensi al Salone del Mobile di Milano e ai suoi eventi collaterali- potremmo partire per altre e differenti riflessioni anche sulla contemporaneità.

 

Qui, per ora, mi preme riconoscere che l’arte della rappresentazione, nel mostrare, è, tra l’altro, arte della persuasione, della seduzione.

Da questo punto di vista, si ha la tentazione di dire che l’allestimento, inteso come strumentario logico e fisico del mostrare, alla sua radice è rimasto inalterato forse da millenni.

Nasce probabilmente nella notte dei tempi. Compare spontaneamente nei mercati, per valorizzare la propria merce contro la concorrenza, e artatamente nei riti sacri e profani, costruendo gli scenari e i cerimoniali più opportuni per coinvolgere, convincere, persuadere.

Così inteso l’allestimento mostra la sua natura di metalinguaggio pronto ad ogni uso.

Con questa impostazione possiamo aprire un’altra prospettiva, nella quale dar posto a tanti epifenomeni del ‘900, il secolo d’oro del mostrare: non si allestiscono solo le esposizioni e le fiere internazionali, ma anche le grandi parate e le adunate di massa, gli apparati intorno alle olimpiadi, le campagne elettorali, i centri commerciali, e infine i musei, le mostre. In tutti questi ambiti si materializzano il mostrare e l’allestimento, spesso trasferendo suggestioni e metodi da un ambito all’altro.

Tornando al nostro tema, le tecnologie –almeno quelle “tradizionali”, rimaste fino ad oggi quasi inalterate- appaiono in questo quadro, alla fine, solo come uno dei media con cui l’allestimento può giocare, da cui trarre e/o a cui dare forma, con cui, dicevi prima, coinvolgere e persuadere. L’avvento del digitale cambia in qualche modo lo scenario?

Intanto, bisogna chiedersi perché il ‘900 sia stato, come io credo, il secolo d’oro del mostrare. In questo secolo appaiono e si diffondono i mezzi dell’informazione e della comunicazione di massa: l’elettricità, il telefono, la radio, la televisione, il cinema.

Tutti strumenti e modi di una conoscenza nuova, caratterizzata da quella che oggi viene definita neo-oralità, e diversi da quelli fondativi della nostra civiltà, cresciuta sulla scrittura. Alla scrittura si affiancano -non possono né potranno sostituirla? il dibattito è aperto-, ma introducono, tra l’altro, velocità, diffusione, e, appunto, seduzione: Benjamin parla, a metà del secolo, di fantasmagoria, Walter Ong, oggi, con attenzione diversa, di differenti “tecnologie della conoscenza”[2].

E’ abbastanza sorprendente verificare come le dinamiche proprie della comunicazione orale primaria individuate da Ong si prestino anche alla comprensione dei media di massa contemporanei.

L’espressione e il pensiero orale sono, ad esempio, “paratattici piuttosto che ipotattici“, “aggregativi piuttosto che analitici“, “ridondanti, enfatici e partecipativi piuttosto che oggettivi e distaccati“. Alla radice, nell’oralità, ci spiega Ong, il linguaggio è un modo dell’azione, del far qualcosa a qualcuno, piuttosto che dell’informazione.

E’ altrettanto sorprendente, a ben vedere, che questi stessi caratteri non esauriscano, certo, tutte le valenze del mostrare, del fare allestitivo, ma ne rispecchino alcuni tratti essenziali.

Non c’è da stupirsi: l’allestimento è sempre, comunque, ibridazione di linguaggi e di modi espressivi. Trae spesso da territori propri della cultura scritta ragioni e contenuti, ma è, alla fine, costruzione di un’azione: informa, quando lo fa, nei modi e nei limiti di un’esperienza.

Proviamo a parlare di esperienze e di tecnologie a confronto.

Mettiamo a confronto due piccole mostre relativamente recenti (nelle piccole mostre si possono tentare sperimentazioni, avventure, paradigmi, che le grandi spesso non consentono): la mostra Nanni Strada. Abitare l’abito, allestita da Italo Lupi, del 2003, e In Vespa del 2005, progettata da me, entrambe prodotte dalla Triennale.

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Italo Lupi, Nanni Strada. Abitare l’abito, Triennale di Milano 2003

Alla base vi era un problema simile: con pochi oggetti e in spazi ridotti, come accade nelle sale di un museo, proporre una visione di temi vasti e complessi.

Lupi, con stile e rigore esemplari, ha realizzato un piccolo gioiello (premetto che sto lavorando a memoria, sull’eco delle suggestioni che mi sono restate, per cui potrei non essere perfettamente fedele nella ricostruzione: ma qualche piccolo errore spero, credo, non pregiudichi il senso complessivo).

Ha diviso in due parti lo spazio della mostra.

Con una pedana inclinata ha costruito un palcoscenico per i modelli disponibili. Ha fatto in modo che come attori, o come progetti viventi, essi potessero coinvolgere, sedurre l’osservatore senza invasive mediazioni. Con grande rispetto, ha lasciato spazio e modo all’osservatore di farsi sedurre.

Di fronte alla pedana ha posto dei grandi pannelli paralleli, in serie compatta. Su questi, con la grafica, ha raccontato Nanni Strada per immagini, ha composto le informazioni necessarie a comprenderne la storia, il lavoro e le ragioni. I pannelli erano ortogonali alla pedana: la grafica non rubava la scena agli oggetti esposti, ma il visitatore poteva, girando lo sguardo, mettere a confronto le informazioni sui pannelli e, di volta in volta, una selezione degli oggetti.

Anche nella mostra sulla Vespa, in una sala lasciata nuda, in penombra, i cinque modelli esposti dominavano la scena. Come ballerine, sotto luci zenitali, mostravano le loro forme rotonde, per la gioia degli occhi di amatori, collezionisti e feticisti che da sessant’anni in tutto il mondo hanno creato migliaia di fanclub e ne hanno fatto oggetti cult.

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In estrema sintesi, possiamo dire che alla materia piena, letteralmente palpabile, delle Vespe, faceva da contraltare l’immaterialità dell’apparato informativo e scenografico, prodotto con tecnologie digitali (i cui apparati erano accuratamente nascosti) da Carlo Fiorini, Samuele Polistina e Federico Thieme.

Accanto alle Vespe, sui grandi schermi di cristallo trasparente che le incorniciavano, il visitatore poteva far apparire alcuni elaborati digitali, nei quali la voce di uno speaker e brevi sequenze di immagini, mostravano di volta in volta, a richiesta, le caratteristiche e la storia dei modelli, o le campagne pubblicitarie, o sequenze di film in cui la Vespa è stata coprotagonista.

Quali sono le differenze strutturali tra le due mostre?

In entrambi i casi sono state progettate e realizzate le condizioni del rapporto diretto tra visitatore e oggetti originali esposti: ‘fisicamente’, dettando con il disegno dello spazio e della luce i loro ruoli reciproci; ‘concettualmente’, ma con tecnologie diverse, fornendo lo sfondo di informazioni e documenti necessario alla comprensione -almeno sommaria- delle cose esposte.

Ma è chiaro, fermandoci alle differenze più grossolane, che la documentazione materiale -e tutta necessariamente compresente- della grafica, nella mostra su Nanni Strada, dà luogo a un’occupazione e articolazione di spazi, e a tempi di fruizione, completamente diversi da quelli consentiti dalla documentazione immateriale -e presente a richiesta- della mostra sulla Vespa.

Modalità e tempi di apprendimento più aperti, veloci e forse oggi più intriganti, per la Vespa; più lenti ed ingombranti, ma probabilmente più mirati e forse più istruttivi, per Nanni Strada.

Il confronto tra le due mostre, tra due modi di esperienza diversi, seppur solo emblematicamente individua il problema. Siamo in un’epoca di transizione. Il problema progettuale di chi allestisce mostre, oggi, a mio parere, non è quello di una competizione fra tradizione e innovazione tecnologica, fra differenti tecnologie della conoscenza.

Il tema affascinante e in gran parte inesplorato è quello di sviluppare le differenze –ben più ampie e complesse di quelle accennate-, di usarle e ibridarle.

L’allestimento è sempre, comunque -è uno degli elementi del suo fascino-, ibridazione di linguaggi e di modi espressivi.

 

 

[1] Walter Benjamin, Grandville o le esposizioni universali, in Angelus Novus, Torino 1962

[2] Walter Ong, Oralità e scrittura, Bologna 1986