-->

Narrazioni

N.B. questo breve saggio è stato estrapolato da progettar mostrando, ormai irreperibile.

 

L’idea stessa di narrazione […], scrive Ginzburg[1], potrebbe essere nata per la prima volta in una società di cacciatori, dall’esperienza di decifrazione delle tracce.

Poiché il processo abduttivo consiste nella costruzione di catene analogiche, la narrazione appare come l’atto di “mettere in discorso” un sistema di inferenze.

Nel nostro territorio d’interesse, gli addetti ai lavori usano i termini “struttura narrativa della mostra” o, tout-court, “narrazione”, in riferimento ad alcuni aspetti del fare espositivo e, in particolare, al percorso.

 

Ma è lecito parlare di narrazione nella mostra e nell’allestimento?

La narrazione orale e scritta -ad esempio, una favola- hanno media diversi da quelli propri del mostrare: le prime operano con i linguaggi della parola, la mostra opera -prevalentemente, anche se non esclusivamente- con i linguaggi di forme, fatti, oggetti, vale a dire tramite immagini o figure concrete.

Dunque, qualsiasi supposizione intorno alla struttura narrativa della mostra -ammesso che questo termine sia appropriato- deve essere sviluppata estendendo il concetto di narrazione oltre il suo contesto d’origine, in contesti, cioè, che possono comprendere anche la parola, ma che non si esauriscono in essa.

[…]

Tornando ancora all’ipotesi di Ginzburg, occorre osservare che gli atti che ‘logicamente’ collochiamo a monte della decifrazione delle tracce sono già fondamentali. Si tratta di cercare -o, meglio, di trovare-  le tracce, vale a dire di selezionare alcuni elementi o oggetti o dettagli tra tutto quanto cade sotto i nostri sensi e riconoscerli come ‘segni’ di qualcos’altro.  Quindi, di metterli insieme provvisoriamente in quella che potremmo chiamare -e forse è già, quasi automaticamente- una lista. Infine, di disporli in un ordine.

L’apparente paradosso è che qualsiasi identificazione -anche solo una raccolta o una selezione- di oggetti o di fatti, tanto più se intesi come segni, è già di per sé conseguenza -o produzione- di qualche ordine. Un ramo spezzato, o l’orma impressa sulla sabbia è riconoscibile come anomalia in un ordine -naturale- già riconosciuto e dato per preesistente.

In breve, trovare e/o raccogliere è già selezionare; selezionare è già straniare, estrarre qualche cosa da una parte e inserirla in un altra. Ne sono presupposti due ordini e/o due luoghi, fisici o mentali, uno d’origine e uno di destino, oppure un unico ordine superiore che li contempli entrambi.

Per questo, forse, Ginzburg parla di modello conoscitivo, di quella che, azzardando, si è tentati di definire genericamente un’innata abilità alla ricerca di senso. Ma l’idea di narrazione dà un particolare spessore a questa abilità. Essa appare piuttosto come la manifestazione di un’attitudine grammaticale o sintattica, cioè dell’attitudine a un linguaggio -intendendo questo come una risposta adattativa del cacciatore all’ambiente- che comprende oggetti, fatti, dettagli e li descrive come segni.

 

Allora, ‘prima’ di essere discorso -e tuttavia forse rispecchiandone la struttura-, la narrazione può essere vista come un modo della conoscenza, o come la restituzione di un pensiero, di una visione: una rappresentazione che, solve et coagula, seleziona alcuni eventi, fatti e cose, e li compone all’interno di un orizzonte di tempo e di spazio. Ricordando la lezione di Mc Luhan, può essere vista come una forma attraverso la quale rintracciamo un senso delle cose, come un medium, cioè, col quale produciamo un ‘disegno’ in grado di renderle coerenti.

 

Con gli occhiali del tempo, un orizzonte è già un ‘racconto’. Forse, qualsiasi linguaggio è già una forma di narrazione che produce -trova o inventa- nessi di qualsiasi tipo, motivi capaci di legare tra loro gli accadimenti -o i loro segni-, il “ciò che accade” di Wittgenstein, il mondo. L’orizzonte è un confine che permane, dove lo scorrere del tempo appare rinchiuso, entro il quale cose e eventi si presentano o accadono sincronicamente, entro il quale sequenza -i movimenti dell’occhio- e simultaneità -la visione d’insieme- sono l’una termine di paragone dell’altra.

Di converso, con gli occhiali dello spazio, il racconto diventa un ‘raccolto’, di nuovo un circoscritto orizzonte. E’ un quadro, una cornice, che distingue, compone e giustifica nei suoi confini l’immagine di un sistema di relazioni interne ed esterne.

Il tema, il problema -a monte del metodo-, è tenere insieme, letteralmente comprendere.

 

Allora, possiamo leggere ciò che non è scrittura. E forse possiamo narrare anche senza usare le parole. Se ammettiamo la possibilità di sganciare la narrazione -o la sua espressione- dalla parola, resta la visione, la rappresentazione: questa abilità, o attitudine, a costruire inferenze che può esprimersi con qualsiasi tecnica, seppure con modalità ed esiti diversi[2]. Tempo e spazio sono, a seconda dei punti di osservazione, strumento e/o prodotto della rappresentazione.

 

In questi termini, possiamo riconoscere come narrazioni, per esempio, anche le pitture rupestri delle grotte di Lascaux, così come, decine di migliaia di anni più tardi -e ricordando le raccomandazioni di Gregorio Magno-, gli affreschi nelle basiliche di Assisi: narrazioni senza parole, dove il tempo non è linearità e lo spazio non ha tre dimensioni, ma appaiono entrambi nell’intreccio di relazioni.

Analogamente, possiamo leggere come narrazioni il tutt’uno costituito dalle ‘decorazioni’ e dalle strutture delle cattedrali gotiche: narrazioni che possono apparire più complesse, perché costruite con tecniche (o tecnologie) diverse, non più soltanto la pittura, ma anche la scultura e l’architettura. E ancora possiamo trovare narrazioni fondate non solo sulla visione, e composte anche -sinesteticamente- con la materia degli altri sensi: dunque odori, musica, danza.

 

Infine, possiamo parlare di narrazione anche nella mostra. Possiamo parlare della mostra come di una forma di rappresentazione narrativa. La mostra, in quanto tale, può essere vista, con tutti i limiti, le proporzioni e le condizioni del caso, come una delle arti, o degli artifici, che possono inventare -o trasmettere l’ipotesi di- una realtà dotata di senso.

 

Se narrare significa inscrivere una selezione di eventi e di cose nella forma -nelle regole e nelle misure- di un tempo e di uno spazio, allora la mostra può essere intesa come una specie di parabola concreta. Una parabola che può a volte rispecchiare, idealizzandola nei propri mezzi, una conoscenza precedente e composta nelle strutture della parola -come quasi sempre accade, ad esempio, nelle fasi d’avvio del suo progetto-, ma che, nella sua autonomia formale e strutturale, alla fine propone -anche- una conoscenza differente, ineffabile, irriducibile alla parola.

Nella figura museografica della rotonda[3] si riassume il paradigma del modo di narrare della mostra. Vi è una selezione di cose o eventi, raccolti all’interno di un perimetro, di confini definiti, di una cornice. Il racconto si forma con l’azione del visitatore: il suo muoversi o il girare lo sguardo –come un piano sequenzacinematografico- dispone la successione e, in ogni istante, costruisce sfondi e riscontri, costellazioni diverse tra le cose presenti. Le regole sono date, i rapporti spaziali sono dati. Ciò che dura, la permanenza immobile delle cose –il tempo e lo spazio immobili delle forme- si dispiega nel tempo e nei movimenti del visitatore, e ne scandisce il cammino.

 

Vi è anche qui un rovescio della medaglia che rispecchia proprietà e rischi già descritti[4]. In qualsiasi esposizione si costituisce la logica di una cornice. Il luogo, la sede della mostra, l’allestimento, la situazione –in una parola: il dispositivo- configurano una cornice. All’interno di una cornice tutto acquista inevitabilmente un senso.

L’ambiguità di ruolo delle opere e il gioco incrociato tra senso della narrazione e senso proprio delle opere nei linguaggi d’appartenenza, danno luogo a un paradosso.

Anche un’installazione che si voglia deliberatamente insensata nelle intenzioni di curatore e allestitore inesorabilmente costituisce una sorta di racconto incorniciante. Come in un cadavre exquis surrealista, i frammenti si ricompongono inesorabilmente come articolazioni di una forma o di un racconto, magari deliranti, ma unitari.

Se disponiamo in uno spazio circoscritto quattro oggetti a caso, ad esempio un cavallo impagliato, un quadro di Kandinskji, un vecchio grammofono e una poltrona, sarà sempre possibile immaginare un racconto in grado di giustificarne la compresenza, di legarli tra loro in un intreccio coerente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] C. Ginzburg, Spie – Radici di un paradigma indiziario, in Miti, Emblemi, spie, Einaudi, Torino 1986, pag. 166

[2] Il dubbio, qui solo accademico, poiché una sua discussione richiederebbe ben altre competenze e ci porterebbe lontano, è se tale attitudine -ammesso che sia così definibile-, evidentemente inseparabile dal linguaggio, sia ‘precedente’ o ‘successiva’ al linguaggio stesso.

[3] Cfr. http://nicolamarras.eu/scenari-del-mostrare/

[4] Cfr. Il potere della mostra LINK