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Il potere della mostra risiede anche, e forse primariamente, nel fatto che essa è un’istituzione, vale a dire un apparato della società cui apparteniamo: un dispositivo dotato di regole, norme ed usi consolidati e riconosciuti, in qualche modo codificati.

La maglia delle istituzioni è uno specchio dell’ordine proprio di una società, ed è questo ordine apparentemente ‘sovrapersonale’ il garante del senso. La mostra in quanto istituzione è un medium, o un sostituto, come il denaro necessario per acquistare il biglietto d’ingresso. Come il denaro, fonda il proprio credito su una fiducia e su logiche comportamentali condivise, come dire che questo stesso credito trascende la fiducia del singolo cittadino.

L’istituzione, in generale, è un dispositivo che prescrive i comportamenti di chi in essa opera o ad essa si affida. L’istituzione mostra prescrive i comportamenti di curatore e allestitore e, non solo attraverso l’operato di costoro, il comportamento del visitatore. E’ anche per questo che possiamo parlare di un contratto non scritto, implicito, che lega curatore, allestitore e visitatore.

I rapporti tra curatore e allestitore, da un lato, e visitatore, dall’altro, come abbiamo visto altrove, non sono paritetici. Curatore e allestitore sono i depositari -o le cinghie di trasmissione- di un potere e di un credito che appartiene all’istituzione.

E’ questo che Duchamp intuisce quando vuole far esporre l’orinatoio-fontana in una mostra. La sua firma non basta. Condizione necessaria perché finisca di esistere in quanto oggetto d’uso -come prodotto sanitario- e cominci ad esistere in quanto opera d’arte -come feticcio- è l’avallo di un’istituzione: una mostra e/o l’attestazione della casta dei critici.

Il concetto -e la parola- dispositivo, qui usato, centrale nel pensiero di Foucault, illumina la natura di questi rapporti.

Nell’esegesi di Agamben il termine dispositivo designa qualunque cosa abbia la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Non soltanto le prigioni, i manicomi, il panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le misure giuridiche ecc., la cui connessione con il potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computer, i telefoni cellulari, e -perché no- il linguaggio stesso […][1]. Appare evidentemente possibile aggiungere a questa lista anche la mostra.

Il dispositivo -dice Foucault in un’intervista citata da Agamben[2]è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano.

Sulla scia di questa impostazione possono partire molti percorsi di riflessione, inerenti le circostanze e le ragioni della pratica sociale delle mostre. Qui, nel quadro del tema che ci preme, ci limitiamo a poche osservazioni, lasciando i pur necessari sviluppi di queste -e molti differenti ulteriori ragionamenti- ad altre occasioni e ad altri contesti.

Potere e sapere si condizionano reciprocamente in una rete complessa di relazioni. La delimitazione, la riduzione orientata, dei dati disponibili è una condizione di queste relazioni e di quelle che, a catena, partono da queste. Nella messa in atto di queste condizioni si inscrive -senza esaurirsi- il potere di curatore e allestitore della mostra.

D’altra parte, un potere privo di consenso -sottolinea ancora Agamben-, in assenza di delega e fiducia, è pura violenza. Da un lato non si dà società umana senza dispositivi, dall’altro, i dispositivi funzionano finché gli uomini -i soggetti– ad essi si affidano e in essi si riconoscono: i dispositivi funzionano se sono soggettivizzati. Rovesciando i termini, il soggetto -l’identità, più o meno consapevole, o la maschera, del singolo o del gruppo- si forma nel confronto con i dispositivi.

In questa irriducibile -e ulteriore- ambiguità, nella mostra, si intravedono di nuovo il ruolo determinante della partecipazione attiva del visitatore, e di nuovo le responsabilità etiche e politiche di curatore e allestitore, chiamati ad operare sugli incerti, sempre mobili confini tra sacralizzazione e profanazione del sapere -e del potere- che essi stessi rappresentano.

Ma appare anche il quarto e fondamentale attore -il mandante- di ogni mostra: l’organizzatore.

L’organizzatore -termine conciso e riduttivo, qui, per una funzione sociale complessa- usa l’istituzione e, nel contempo, ad essa si sovrappone. Fornisce mezzi e luoghi, designa curatori e allestitori: ma questi atti sono già secondi, vengono dopo la scelta di fondo di cosa e perché mostrare. Una scelta che appartiene inevitabilmente a una logica di brand, giacché una mostra, qualunque ne sia l’oggetto, si fa sempre in previsione di un ritorno economico in senso lato, nel quale, alla fine, è forse necessario, ma certamente arduo porre distinzioni tra politica e cultura, tra esercizio del potere e consenso, tra denaro e immagine.

La mostra, come ogni dispositivo, opera a più livelli. Disporre -nell’etimo composto di dis, che indica divisione, e ponere, porre- significa, stando ai dizionari, porre a proprio luogo, con un ordine, secondo un dato disegno o il fine voluto.

Gli oggetti esposti traggono la propria identità e vengono validati dal dispositivo mostra messo in atto da curatore e allestitore. Ma l’azione di curatore e allestitore non è diretta agli oggetti. Il loro obiettivo è, più o meno consapevolmente, catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni del visitatore, progettando le relazioni tra il soggetto visitatore e oggetti esposti, e, alla fine, tra il visitatore e l’organizzatore. Gli oggetti e tutto l’apparato espositivo sono -o dovrebbero essere- ‘disposti’ per configurare l’esperienza del visitatore.

Di converso, il visitatore, soggettivizza il dispositivo mostra. Adottando il comportamento progettato per lui, assume un ruolo, un’identità, diventa il vero bersaglio -oggetto e protagonista- della mostra, l’attore che con i suoi movimenti e i suoi gesti interpreta, svela e ri-vela, e ripete, ripercorrendolo, il progetto di curatore e allestitore.

Nel cuore di questa sua molto condizionata libertà si annida però il potere di riconoscere o disconoscere -comunque smascherare- non solo l’operato di curatore e allestitore, ma anche il credito del dispositivo, l’autorità dell’istituzione. Riconoscere o disconoscere mezzi e finalità di chi la mostra l’ha voluta e prodotta.

 

 

 

[1] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma 2006, pag. 21.

[2] G. Agamben, Che cos’è…, pag. 7.