Giochi di parole: mostrare, luogo, allestimento
Giochi di parole
Mostrare, luogo, allestimento
L’etimologia ricostruisce l’albero genealogico delle parole, e attraverso questo anche l’evoluzione dei significati associati alle parole stesse. Riportando alla nostra attenzione i significati dimenticati o abusati, in qualche modo rivela i lapsus, qualcosa di simile al subconscio -o inconscio- celato nelle espressioni verbali che usiamo e condividiamo tutti i giorni.
Indagare gli etimi delle parole italiane che più ricorrono nel nostro campo di interesse, può essere allora una premessa a riflessioni che tentano, anche, non ultimo, di ritrovare qualcosa di quanto resta nascosto o implicito nella pratica -cioè, uso o mestiere- del mostrare.
Mostrare, mostra
La mostra è l’atto o il fatto del mostrare. Entrambe le parole sono strette parenti, anche se meno inquietanti, del monstruum.
Mostrare viene dal latino monstrare. Monstrare e monstruum derivano dalla stessa radice mon (o man) di monere, che significa avvertire, ammonire, far vedere, ma anche far sapere, ricordare, ammaestrare, così come il monito ti mette in guardia e ti impone di pensare.
Il monstruum, come l’italiano mostro, è l’abnorme, la devianza, ciò che vìola le norme di natura e/o dell’uomo. Ma è anche sinonimo di prodigio, poiché, per la sua stessa anomalia, è segno o segnale della volontà -e dunque, appunto, ammonimento- degli dei.
Appare subito che la duplicità -o la molteplicità- è coessenziale al mostro, insita nel suo porsi come eteromorfia.
Infrangendolo, indica il bisogno e il potere dell’ordine, ma pur generando orrore, comunque attrae e confonde, come le sirene omeriche, o come tutti i mostri esibiti da sempre nei circhi e nelle fiere, ed oggi, mutatis mutandis, nei reality televisivi. E’ il fascino e la repulsione dell’Altro, del diverso, del nuovo e dell’oscuro, del mai visto e perciò imperdibile.
Il mostro, allora, in bilico tra sacro e profano, tra messaggio angelico e confusione diabolica, può essere -anche eroica- trasgressione, incarnando l’idea o l’illusione della possibilità di liberarsi dalla prigionia di convenzioni, leggi, necessità date per inamovibili, forse per crearne di nuove.
L’etimologia ci ricorda dunque che un insegnamento è nella nascita e nel destino della mostra. Ma anche che questo insegnamento si produce e seduce solo se la mostra costruisce la propria separazione, se si pone come anomalia e, appunto, eteromorfia, nel tessuto del sapere costituito.
Come i mostri sono molteplicità ed eccesso non solo per la pluralità di sensi che trasmettono, ma anche nelle forme che scompongono e ricompongono -si pensi a giganti e nani, e alla sfinge, o al corpo delle sirene, o alle teste di Argo-, così la mostra è inevitabilmente rimescolamento e ibridazione di forme e di linguaggi, proprio per poter descrivere, scomporre e ricomporre il senso attribuito alle cose che espone.
La mostra, come il mostro che riecheggia, colloca se stessa e il suo insegnamento sul limite tra accettabile e inaccettabile da parte del pensiero dominante, ed è qui che appare inevitabile il suo rapporto con il potere costituito.
Luogo
Luogo deriva dal latino locus. L’etimo della parola latina è però incerto. Secondo alcuni filologi la dizione originale sarebbe st-locus, derivando a sua volta dalla radice indoeuropea stl.
A questa radice fanno capo vocaboli greci arcaici, come il verbo stello -mettere in ordine, disporre, ma anche armarsi, equipaggiarsi-, stele -colonna, pietra di confine, termine-, vocaboli italiani, come stelo, stile, installazione, stallo -trono, arresto-, e tedeschi, come stellen -porre, ma anche, in alcuni casi, mettere-, ausstellung -esposizione-.
Locus, il suo omologo greco topos e l’italiano luogo hanno lo stesso ventaglio di significati. Mettendo a confronto più dizionari si può riepilogarne i principali:
- porzione di spazio idealmente o materialmente delimitata;
- costruzione e/o parte di essa adibita a particolari usi; e, per analogia, passo di un testo, estratto;
- opportunità, facoltà: si dice, infatti, “dar luogo a qualcosa”, o che una cosa è fatta “a tempo e luogo”, o, al contrario, “fuori luogo”.
Incrociando tra loro i significati emerge che il luogo appare se e quando è in qualche modo delimitato rispetto ad un contesto, anche, ma non necessariamente, per gli usi o le opportunità che consente. Porre delle delimitazioni -dei confini- significa che il luogo si produce come discontinuità nel tessuto spaziale, che altrimenti sarebbe -o si sottintende che sia- continuo, indifferenziato, indistinto.
Ammettere, poi, che le delimitazioni possano essere immateriali –porzione di spazio idealmente delimitata-, implica che il luogo, e dunque i suoi confini, siano invece comunque configurati da un ordine di relazioni. Il luogo comunemente inteso nel parlare quotidiano, alla fine, coincide con il concetto di luogo teorizzato dalla geometria: è una regione dello spazio i cui punti soddisfano una determinata relazione.
La parola luogo induce alle tentazioni di campi molto più vasti, alla percezione del mondo e ai modi d’apprendimento dell’uomo. I significati della parola luogo rispecchiano l’incerto cammino dell’idea dello spazio dalla polemica tra Aristotele e gli stoici fino ai giorni nostri. Mostrano come l’uomo, per conoscere, per dominare lo spazio, per ricordare, abbia bisogno di costruire o riconoscere frammenti, legati da -e dotati essi stessi di- un ordine di relazioni.
Emergono dunque altre qualità implicite, non scritte nei dizionari, ma essenziali dell’esser tale il luogo.
La prima qualità implicita è una relativa stabilità, una durata. L’ordine delle relazioni e i confini configurano punti di riferimento, orientamento, memoria.
La seconda -ma non meno importante- qualità è la riconoscibilità. Il luogo, l’ordine, in sé non appare: è tale dal momento in cui lo riconosciamo. La riconoscibilità è costitutiva nell’essere del luogo.
D’altra parte, noi ‘vediamo’ solo ciò che ‘riconosciamo’. Il ri-conoscimento è un atto culturale, sociale, inseparabile dalla memoria: dobbiamo rompere quello che si presenta come continuum spazio-temporale, dobbiamo romperne l’apparente indifferenziazione per poterlo conoscere, comunicare, usare.
E’ un processo analogo al nominare, al dar nome alle cose: sembra implicare che gli uomini sovranamente proiettino -cioè progettino- un ordine, un sistema di relazioni su spazio e cose in sé senza volto, anodine.
Il riconoscimento, la condivisione -cioè la comunicazione- della conoscenza, della proiezione, sono inseparabili dall’universo del linguaggio.
Allestimento
Allestimento è parola italiana. Designa ambiguamente sia il prodotto finale, sia il processo che va dal concepimento, al progetto e infine alla realizzazione dell’allestimento stesso.
E’ parola composta. Così come, ad esempio, “approfondimento” vuol dire rendere profondo o più profondo, “allestimento” significa render lesto ciò che lesto non era o non sarebbe, oppure rendere più lesto.
Anche lesto ha etimo controverso.
Potrebbe derivare dai termini francesi arcaici lest [1], che porta a significati inerenti l’assunzione un carico, o leste, sorta d’abito, che potrebbe introdurre al tema dell’addobbo, del travestimento in ragione di un evento.
Un’altra ipotesi, forse ardita ma intrigante, la farebbe derivare dal greco leistòs -predatore, rapace-. Il relativo verbo, leizho/leizhomai, si può tradurre con saccheggiare, impadronirsi. Verbo dunque da razziatori, pirati: prendere, raccogliere alla svelta e andar via.
D’altra parte, si dice “lesto di mano”, o “di parola”, che non sono propriamente dei complimenti, a meno che chi li pronuncia non sia, a sua volta, un “lestofante”.
A differenza di quanto è emerso circa il luogo, le ipotesi sulla genealogia della parola allestimento non propongono una univocità, quanto piuttosto una polifonia, una costellazione di sensi e significati. D’altra parte, neppure i suoi usi correnti appaiono omogenei: si allestisce una mostra, uno spettacolo, ma anche una nave -tutte le lavorazioni dopo il varo affinché quella possa prendere il mare.
Restando alle prime ipotesi, si potrebbe osservare che la velocità, propria di chi è lesto, mal si coniuga col peso d’un carico. Tuttavia, senza questo, senza un contenuto, la nave o lo spettacolo o la mostra sono insensati. La velocità ritorna però nell’effimera presenza, qui ed oggi, di spettacoli e navi, e nel rapido apparecchiarsi di mostra e spettacolo.
La veste e il carico, poi, si incrociano -di nuovo velocemente e/o temporaneamente- nella reciproca inferenza tra domanda e risposta, tra selezione dei mezzi e perseguimento dei fini, nell’esser gli uni premessa degli altri: l’allestimento costruisce il luogo della mostra travestendo e caricando di un senso il luogo che la ospita.
Se, così, lo si vede come costruzione di un luogo in un altro luogo, il fare allestitivo sembra riconducibile ai codici dell’architettura. Richiuso nel gioco tra permanenza delle forme e mutamento delle necessità, ricorrente nella storia delle città, l’allestimento -la struttura portata- si riduce a “decorazione”, ossia a reversibile sovrapposizione sullo spartito architettonico -la struttura portante-, al fine di riconvertirlo a nuovi usi.
La terza ipotesi etimologica, invece, cambia totalmente la prospettiva. E’ un’ipotesi che si giustifica nella duplice constatazione che l’allestimento espositivo non è una tecnica, non ha un corpus disciplinare, e che, a seconda delle situazioni, s’adatta, saccheggia, utilizza e sfrutta opportunisticamente, malizioso e smaliziato, qualsiasi tecnica o disciplina gli convenga, qualsiasi codice di rappresentazione.
Appare così che l’allestimento, privo di un codice autonomo, non agisce sullo stesso piano dei codici di rappresentazione che adopera. L’allestimento espositivo è un metalinguaggio.
In quanto tale può selezionare e organizzare le espressioni di più linguaggi, siano questi la parola parlata o scritta, l’architettura, la pittura, la scultura, la musica, e/o tutti quelli che concorrono a connotare o denotare un luogo.
[1] Sergio Polano, Mostrare, Ed. Lybra Immagine, Milano 1988, pg.53, ed anche, più in generale, Marina Beer, in “Rassegna” n°10, Bologna 1982, risvolto di copertina.