clip 17.2: luogo, arte, allestimento

Pirro Ligorio, il Sacro Bosco di Bomarzo, 1547

Anthony McCall, mostra Breath: the vertical works, 2009

3.

Pirro Ligorio, il Sacro Bosco, detto anche il Parco dei Mostri,

Bomarzo, 1547

committente Pier Francesco Orsini

 

Il Sacro Bosco di Bomarzo, non lontano da Viterbo, è un’opera singolare, uno stravagante giardino della metà del ‘500.

Indossando i nostri occhiali di allestitori, e abusando in modo assolutamente inappropriato e scorretto dei concetti e degli strumenti di studio -e di lavoro- che ci hanno guidato fin qui, possiamo vederlo e analizzarlo come se fosse una mostra dei nostri giorni, e -con questo espediente- trarne forse qualche insegnamento.

In effetti, in altri contesti abbiamo paragonato la mostra a un giardino incantato. Ora, rovesciando i termini, possiamo paragonare il Sacro Bosco, un vero giardino incantato, a una mostra, a una molto particolare esposizione.

 

Procediamo.

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Come una mostra, il Sacro Bosco è un luogo chiuso -si paga anche un biglietto per entrare-, e al suo interno sono state installate e/o realizzate enigmatiche sculture e/o architetture: tutte opere site-specific, si direbbe oggi, ossia prodotte specificamente in quel luogo e per quel luogo, con il fine preciso -e anche questo è un tratto distintivo di ogni buona mostra- di provocare nei visitatori determinate emozioni, determinate esperienze.

E’ davvero un giardino, in quanto tutta la vegetazione che vi si trova è stato voluta, piantumata ad arte, o quanto meno consentita dall’uomo. Ma è completamente differente da tutti i giardini suoi contemporanei, i giardini all’italiana che il Rinascimento ha lasciato in eredità al mondo, come i parchi delle ville Medicee -una per tutte, la più nota, la villa di Poggio a Caiano (17.15)-, o quelli non lontani da Bomarzo, a Villa Lante a Bagnaia (17.16), e a Villa Farnese a Caprarola (17.17).

Erede laico -e a volte perfino licenzioso- dell’Hortus conclusus dei monasteri medioevali -specchio della creazione divina-, o emulo dei giardini arabi e normanni, il giardino all’italiana è pensato per essere -ed è- un’isola di pace, di bellezza, di armonia, di piacere, di ordine perfetto. Un chiuso recinto che lascia fuori delle sue mura una natura e un mondo ancora selvatici e minacciosi.

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Il Sacro Bosco di Bomarzo è tutt’un’altra cosa.

Ma non è un incidente, un errore. A differenza dei giardini del suo tempo, non vuole offrire armonia, pace e bellezza. Il Sacro Bosco di Bomarzo nasconde il suo vero volto dietro la maschera di un’eterotopiarovesciata: finge di essere uno spazio tanto disordinato, mal organizzato e caotico, quanto quello dei giardini all’italiana è ordinato, perfetto, meticoloso. (clip 01)

E lo dichiara apertamente. Lungo il cammino, nella lunetta sopra la cosiddetta Panca Etrusca (17.18), un’iscrizione avverte i visitatori

VOI CHE PEL MONDO GITE ERRANDO VAGHI
DI VEDER MARAVIGLIE ALTE ET STUPENDE
VENITE QUA DOVE SON FACCIE HORRENDE,
ELEFANTI, LEONI, ORSI, ORCHI ET DRAGHI

Ed ecco, infatti, che questo luogo diverso e separato dal mondo ospita nei suoi spazi e mette in mostra grottesche figure, sculture inquietanti, architetture assurde (tra le tante: 17.19, 17.20, 17.21, 17.22, 17.23)

Opere che si intrecciano con la foresta, che affiorano dalla terra come creature ctonie, e si rivelano come mostri e divinità degli abissi marini, dell’aria, del fuoco.

Opere, ripeto, che non sono state fatte per essere belle, ma sono lì per suscitare emozioni.

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Emozioni? Perché?

Le emozioni sono lampi, o sensazioni, o reazioni, come la commozione, il dolore, lo stupore, la paura, il desiderio: sono segnali, campanelli d’allarme per attirare la nostra attenzione, per avvisarci che abbiamo di fronte, o sta accadendo, qualcosa di diverso, di inatteso.

E’ per questo che in ogni buona mostra, come a teatro, suscitare emozioni è uno strumento fondamentale per coinvolgere il visitatore. Le emozioni, in sostanza, instaurano -o sono esse stesse- una forma di relazione.

Ed è per questo che Bomarzo -come Matter of time di Serra, o Dialogo nel Buio [1]– infrange i modi ordinari, consueti, di presentazione e/o di rappresentazione del mondo. Lo fa per risvegliare anime addormentate o svogliate, per aprire i loro occhi, affinché nulla sembri ovvio, nulla resti invisibile.

In tal senso è emblematica la cosiddetta casa pendente, la casetta: forse uno dei più affascinanti dei tanti ‘pezzi’, che quasi come personaggi abitano e costellano il Sacro Bosco.

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La casetta è un piccolo edificio (17.24) che mette in discussione una qualità essenziale dell’architettura: la vitruviana stabilitas. Secondo il vocabolario Treccani della lingua italiana -per intenderci-, la ‘stabilità’ è il fatto, la condizione e la caratteristica di essere stabile, […] cioè ben basato ed equilibrato, capace di resistere a forze e sollecitazioni esterne.

La casetta invece imbroglia il visitatore giocando con la materia e con la gravità.

Muri, volte e pavimenti esibiscono il normale spessore e il peso delle costruzioni del XVI secolo, realizzate in pietra, calce, mattoni.

Ma nulla in quella casa appare realizzato a regola d’arte, nulla è orizzontale o verticale, nulla è ‘in ordine’: i pavimenti hanno pendenze irregolari e non sembrano neppure ortogonali alle pareti, a loro volta fortemente inclinate. Tutto è pendente, sghembo.

Chi entra è sconcertato (sono visitabili solo due camere al primo piano): ciò che percepisce con gli occhi è in conflitto con ciò che percepisce con il resto del corpo (17.25, 17.26, 17.27).  La gravità che appare in quella casa, davanti a lui, contraddice la gravità che il suo senso dell’equilibrio, la posizione eretta, istintivamente ben conosce: le loro direzioni sono differenti e confuse.

Allora è vertigine, smarrimento.

L’insicurezza, l’apparente instabilità dell’edificio diventa l’insicurezza, la reale l’instabilità del visitatore.

Ma la casetta sta lì da qualche secolo. E’ dunque inganno, raggiro, quasi blasfemìa, ché sembra insidiare, irridere l’ordine naturale -e divino- delle cose del mondo…

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Ma perché tutto questo? Cosa vuole mostrare? Cosa significa?

Certo, possiamo eludere la domanda, esorcizzando facilmente il parco, liquidandolo come una stravaganza, uno scherzo, un singolare esempio di arte dei giardini, oppure -in un corto circuito temporale qual è il nostro- come una provocatoria opera di land art, o di installation art.

C’è chi sostiene che il Bosco di Bomarzo sia una rappresentazione -o una finzione?- del mondo qual è, dei pericoli, delle insidie, delle minacce, delle oscurità che dobbiamo ri-conoscere e attraversare.

Secondo l’opinione di molti studiosi, è anche e soprattutto un’allegoria dell’Opera al Nero, della prima fase del cammino alchemico, la fase dello smarrimento, e dell’accecamento.

Allora, il Sacro Bosco è la dantesca selva oscura, un’immagine dell’inquieta profondità delle nostre anime. E’ la selva oscura che confonde il visitatore come un labirinto, ma un labirinto ben diverso dagli splendidi, rassicuranti pseudo-labirinti disegnati da ordinate siepi geometriche nei giardini all’italiana.

 

Se appena rifletti, non solo la casetta, ma l’intero parco, con qualche divertita crudeltà, sta lì per far sentire, far riconoscere al visitatore l’illusione della nostra umana stabilitas, l’inganno delle nostre consolanti abitudini, delle nostre arroganti certezze e perfino l’inaffidabilità dei nostri sensi. Ma sta lì anche per far intuire, per indicare la strada verso l’aureo segreto che può nascondersi oltre gli inganni, oltre le emozioni, le passioni, le tentazioni.

La selva oscura è la prova che dobbiamo superare per tornare a riveder le stelle.

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Allora, tornando ai temi che ci premono, il Sacro Bosco non è semplicemente lo scenario, lo sfondo apparentemente naturale sul quale sculture e architetture si stagliano e agiscono come bizzarri personaggi. E’ invece il racconto, la cornice che li tiene insieme e conferisce un ruolo a ognuno di loro. Oppure, rovesciando la prospettiva, potremmo dire che a Bomarzo cose della natura e manufatti dell’uomo si compongono come segni in una mappa, come parole in un discorso.

A Bomarzo, come in un quadro di Arcimboldo, se la visione si ferma alle parti, se non va oltre i singoli pezzi, sfugge l’insieme, se ne perdono i contorni, viene meno il senso e la ragione di ogni cosa.

E allora anche noi ci perdiamo…

(il che, beninteso, può essere anche una scelta: e il naufragar m’è dolce in questo mare [2], ci confida Leopardi. O un’opportunità, come quella che ti offre Rothko nella cappella de Menil, a Houston).

Ma se restiamo qua, se vogliamo ‘comprendere le regole’ del nostro gioco, il gioco  dell’allestimento, dobbiamo osservare che anche qui riappare il luogo.

Il Sacro Bosco e The Matter of Time sono luoghi.

Lo abbiamo già detto altrove, una qualsiasi parte del mondo -o, in senso figurato, di un libro, di un quadro, di un’opera- diventa un luogo quando lo si distingue come un’isola nell’oceano dell’indifferenziato, dell’irrilevante, quando lo si riconosce e lo si ricorda, quando diventa un punto di riferimento, di orientamento.

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Ultima annotazione.

Il Sacro Bosco appare una testimonianza illuminante della parentela che nella lingua italiana lega le parole le parole mostra e mostro, esposizione e scherzo di natura [3]. Una parentela che trae origine dalle idee di norma e di eccezione, e che si manifesta nei codici di rappresentazione e nella loro rottura.

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[1] Sul tema della rottura dei codici di rappresentazione, vedi il saggio Dialogo nel buio, e qui, in particolare, Vis comica. (link)

[2] Ultimo verso de L’infinito, di Giacomo Lepopardi

[3] vedi la voce Mostrare, mostra nel saggio Giochi di parole…

 

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4.

Anthony McCall, mostra Breath: the vertical works

Pirelli Hangar Bicocca, 2009

 

Torniamo ai nostri giorni, in un’altra e ben diversa oscurità.

Nella primavera del 2009, l’Hangar Bicocca di Milano, in uno spazio quasi totalmente buio, in una bellissima mostra curata da Serena Cattaneo Adorno, ha ospitato molte installazioni di Antony McCall -fasci di luce e proiezioni verticali-, opere all’epoca in gran parte inedite, sulla scia della ricerca iniziata nel 1973.

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In molte mostre precedenti, soprattutto agli esordi, McCall aveva lavorato con coni di luce orizzontali.

In opere come Line Describing a Cone, 1973, (17.28, 17.31)  o You and I, Horizontal (2005) aveva coinvolto i visitatori di ogni età reinventando un gioco antico e irresistibile come le ombre cinesi.

Usando la luce come un’enorme lama di rasoio (17.29, 17.30, 17.31), trasformava i visitatori in piatte sagome virtuali, e facendole poi a pezzi, ritagliandole ed estrudendole, paradossalmente restituiva ad ogni corpo e a ogni gesto un nuovo inatteso volume, una nuova potente, sorprendente, illusione di materia.

Dunque, se in queste installazioni fermiamo l’immagine, come in un’istantanea, e appuntiamo la nostra attenzione sulla luce, potremmo dire che McCall non disegna la luce, ma la usa come strumento per disegnare il buio e i visitatori.

Ma se spostiamo l’attenzione sugli spettatori e facciamo ripartire la sequenza dei loro movimenti, ci accorgiamo che gli spettatori non sono semplicemente parte dell’installazione, ma ne diventano coautori non meno di McCall, trasformando i propri corpi in sculture o marionette animate che a loro volta disegnano luce e buio e ne sono disegnate.

L’insieme è indissolubile, ed è effimero, una sequenza di attimi che vorresti fermare: di eventi forse prevedibili, ma sempre diversi, come l’azione dei visitatori -il racconto che essi stessi sviluppano-. Quello che vediamo, quello che accade, non è più riducibile o riconducibile all’ibridazione, all’intreccio di forme ed espressioni diverse e familiari, quali cinema, teatro, scultura, performance art. E’ una forma nuova, compiuta, in un territorio nuovo e ancora inesplorato.

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Alla Bicocca, nel 2009, McCall porta proiezioni verticali, e il gioco con gli spettatori si fa più complesso.

La prima impressione del visitatore, ancora abbagliato dal giorno, quando entra nel buio dell’Hangar, in un buio impenetrabile, quasi solido, è quella di essere rimasto solo, lui stesso quasi invisibile in uno spazio di cui non vede confini.

Abituandosi, a poco a poco comincia a vedere davanti a sé delle luci, lontane, ad alcune decine di metri di distanza, o forse più. Ma non sono lame o fasci di luce, come nelle installazioni orizzontali. Sono invece ‘volumi’ di luce (17.32, 17.36), sembrano quasi ologrammi o fantasmi di teepee, di un villaggio degli indiani nordamericani…

Occorre un quarto d’ora, venti minuti, per abituarsi al buio. Poi, il numero, le dimensioni, le diverse altezze e la distribuzione  dei coni -diafani, ma consistenti, come velari- nel buio sono l’unica misura delle cose, appaiono come galassie che misurano e scandiscono spazi siderali.

Il buio, dunque, reso immenso e profondo dall’immensità della sala, non è solo la conditio sine qua non delle installazioni, la loro unica possibilità d’essere. Il buio è un recinto, un recinto invisibile che dà l’illusione dell’infinito, e che proprio per questo raccoglie le installazioni, le tiene insieme, ne fa il centro di un chiuso universo.

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Il visitatore comincia ad avvicinarsi, cautamente. Al suolo le luci disegnano linee bianchissime o figure piatte, i cui contorni si muovono, si aprono, si chiudono, lentamente, impercettibilmente (17.33).

Alzando e girando lo sguardo, guardando lontano, gli alti coni di luce impalpabile appaiono come luoghi, come luoghi di favola, come stanze sognanti.

Alcune stanze sono vuote, in altre vede qualcuno, anche una giovane coppia, lei e lui, come fossero soli. Intorno, da fuori, anche altre persone guardano, incantate. (17.34, 17.35)

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Il visitatore si avvicina di più, si fa tagliare dalla luce come da una spada laser, anche lui entra in un cono. Il velario di luce separa un dentro e un fuori. Stando dentro, non vede quasi più nulla e nessuno là fuori, oltre la parete di luce. Anche lui, come la giovane coppia, ha l’illusione di essere in un rifugio, si sente protetto, in uno spazio chiuso, isolato dal mondo.

Anche lui, infatti, dapprima non si rende conto di essere esposto come una ballerina sul palcoscenico. Poi, quando ci pensa, come tutti entra nella parte e si esibisce…

C’è un dentro e c’è un fuori, un davanti e un dietro, le installazioni di McCall sono galassie -abbiamo detto-, isole di luce e di ordine nel buio indifferenziato, sono punti di riferimento, di orientamento. Sono, anch’esse, luoghi.

Così, seppure con modi e mezzi totalmente diversi, le installazioni di McCall ripropongono le stesse riflessioni e le stesse domande che ci poneva l’opera di Richard Serra.

E anche qui, a Milano, nel buio sterminato dell’Hangar Bicocca, se un architetto, chiamato da qualche famoso stilista, avesse progettato di esporre abiti indossati da modelle vive o manichini sotto coni di luce mobili, diafani o taglienti, come quelli di McCall, si sarebbe parlato di allestimento o d’arte?

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Riflessioni

Lo osservavamo in apertura: in molte delle opere che abbiamo esaminato in queste lezioni appaiono davvero incerti i confini tra allestimento e arte, e/o tra le diverse Arti che le Accademie tramandano e insegnano da secoli.

Ma se allarghiamo lo sguardo oltre gli angusti limiti del nostro campo di interesse, appare che questa incertezza è solo uno degli aspetti di un ben più vasto e profondo cambiamento che da oltre un secolo coinvolge e travolge la cultura e la vita di tutti. E occorre parlarne qui, seppur sommariamente, pur non essendo affatto né storici, né critici d’arte, perché in questa prospettiva possiamo comprendere meglio anche molti aspetti del nostro lavoro.

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Cosa è accaduto in questi 100-150 anni? Di quale cambiamento stiamo parlando?

La seconda metà dell‘800 ha visto l’alba di una rivoluzione, ancora in atto, ancora tutt’altro che finita, non meno epocale di quelle segnate nei passati millenni dal passaggio dall’oralità alla scrittura e da questa alla stampa.

Nel ‘900, grazie alle conquiste della scienza e della tecnologia, si affermano e si diffondono i nuovi mezzi dell’informazione e della comunicazione di massa: l’elettricità, il telefono, la radio, il cinema, la televisione, e poi, negli ultimi decenni, l’elettronica, il digitale, i computer, internet…

Tutti mezzi che non solo consentono una nuova e fino a ieri impensabile velocità di trasmissione della conoscenza, ma anche e soprattutto danno origine a nuove forme di conoscenza, di memoria, di apprendimento, caratterizzate da quella che le scienze cognitive, la linguistica, le discipline umanistiche, l’antropologia definiscono neo-oralità [1], una nuova forma di oralità. E noi siamo tutti -più o meno consapevolmente- immersi in questo mondo via via sempre più multimediale.

Un mondo in cui una nuova visione dell’arte -a cominciare dalle avanguardie- ovviamente non cancella quanto ci ha trasmesso il passato, nel quale ancora ben ci riconosciamo -o nel quale cerchiamo conferme a identità ormai obsolete-, ma lo elabora, lo riusa e lo trasforma per aprire la strada a espressioni del tutto differenti, a territori irriducibili nei confini, nei mezzi e nei significati delle Arti Classiche.

L’allestimento espositivo, quello che stiamo studiando in queste clip, nasce con quella rivoluzione: è un mezzo -e dunque una forma- di comunicazione di massa, un medium -direbbe McLuhan- che pervade la vita di tutti i giorni.

Dalla fine dell’800 e poi nel ‘900 -ne abbiamo già parlato- non si allestiscono solo le esposizioni universali e le fiere. Abbiamo visto il Fascismo far sue le visioni e l’estetica del Futurismo, ‘inventare’ e unire in unico progetto comunicativo -mettere insieme– la radio e le mostre, le grandi parate e le adunanze di massa. Sulla barricata opposta abbiamo visto altre avanguardie ed El Lissitzky (clip 10) promuovere il sogno di un nuovo mondo, scardinando ogni ordine tra le arti tradizionali in un apparente roboante fracasso, componendo e ibridando tra loro tutti i nuovi linguaggi metropolitani.

Con la stessa ibridazione e/o invenzione di linguaggi e con la stessa capacità di inventare nuovi luoghi, nel ‘900 abbiamo poi visto allestire anche le olimpiadi, le campagne elettorali, i centri commerciali, ogni sorta di cerimonie…

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L’allestimento è tutto questo e -come la nuova arte- è proteiforme, e crea luoghi nei quali immergere lo spettatore, per coinvolgere fisicamente i suoi sensi, la sua la mente, per arrivare -direttamente e/o indirettamente- fino alla sua coscienza.

In questo mondo, l’allestimento, come la parola parlata, è un mezzo -dunque una forma- di trasmissione della conoscenza che, come le nuove espressioni dell’arte, è fondato sull’azione, sul ‘far qualcosa a qualcuno’: sul ‘fare‘ o ‘sul far fare qualcosa’.

Allestimento e arte comportano ormai approcci fondati sull’esperienza fisica, corporale, concreta, sulla partecipazione attiva piuttosto che sull’informazione, sull’astrazione.

Approcci e forme di apprendimento che si attuano prima di tutto con comportamenti, che inducono nuovi comportamenti, e che, almeno in parte, sembrano portarci verso una epoca e verso una cultura non più plasmate soltanto dalla scrittura e dalla stampa.

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[1] Non è questa la sede per affrontare con la dovuta attenzione il tema della neo-oralità, pur di straordinaria importanza per comprendere il mondo in cui viviamo. Su questo tema vedi:

Walter J. Ong, Oralità e scrittura, il Mulino, Bologna 1986

Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, 1983

 

 

17.15  Giuliano da Sangallo, villa di Poggio a Caiano, 1470

in una delle 14 lunette dipinte da Giusto Utens tra il 1599 e il 1602 per la villa di Artimino,

e oggi esposte nella villa della Petraia, a Firenze

https://it.wikipedia.org/wiki/Giusto_Utens

 

17.16  Jacopo Barozzi, il Vignola, villa Lante a Bagnaia, 1511/1566

http://musei.beniculturali.it/musei?mid=789&nome=villa-lante

 

17.17  Vignola, Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi, villa Farnese a Caprarola, 1559/1575

https://rocaille.it/villa-farnese-caprarola-pt-1

 

17.18  il Sacro Bosco, Bomarzo, la Panca Etrusca

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.19  il Sacro Bosco, Bomarzo, l’Echidna e i leoni

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.20  il Sacro Bosco, Bomarzo, l’Orco

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.21  il Sacro Bosco, Bomarzo, l’Elefante

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.22  il Sacro Bosco, Bomarzo, il Drago

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.23  il Sacro Bosco, Bomarzo, Ercole e Caco

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.24  il Sacro Bosco, Bomarzo, la Casa Pendente

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Parco_dei_Mostri

 

17.25 il Sacro Bosco, Bomarzo, la Casa Pendente, interno

fotogramma da: https://www.youtube.com/watch?v=I4AXRBmHtsE

 

17.26 il Sacro Bosco, Bomarzo, la Casa Pendente, interno

https://www.theplaceb.com/viterbo-misteri-e-dintorni/#

ph. JJ & Nick

 

17.27 il Sacro Bosco, Bomarzo, la Casa Pendente, interno

fotogramma da: https://www.youtube.com/watch?v=IDUsVob6zoo

 

 

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17.28  Line Describing a Cone, 1973

Installation view, Into the Light: The Projected Image in American Art 1964-1977,

Whitney Museum of American Art, 2001.

Ph. Hank Graber

http://www.anthonymccall.com/solid-light-works

 

17.29  Fotogramma da Solid Light Works / Pioneer Works, New York, 2018

https://www.youtube.com/watch?v=KpPofiMbJuI

 

17.30  Fotogramma da Solid Light Works / Pioneer Works, New York, 2018

https://www.youtube.com/watch?v=KpPofiMbJuI

 

17.31  Line Describing a Cone, 1973

Lismore Castle 2017, Lismore, Ireland

https://lismorecastlearts.ie/whats-on/anthony-mccall

 

17.32  Installation view, Hangar Bicocca, Milano, 2009

Ph. Giulio Buono

http://www.anthonymccall.com/solid-light-works

https://pirellihangarbicocca.org/mostra/anthony-mccall-breath-the-vertical-works

 

17.33  Breath (II), 2004.

Installation view, Hangar Bicocca, Milano, 2009

Ph. Giulio Buono

http://www.anthonymccall.com/solid-light-works

 

17.34  Installation view, Hangar Bicocca, Milano, 2009

courtesy by Ph. Gianluca Widmer

 

17.35  Between You and I, 2006

Installation view, Pirelli Hangar Bicocca, 2009

http://1995-2015.undo.net/it/mostra/84263

 

17.36  Installation view, Pirelli Hangar Bicocca, 2009

https://pirellihangarbicocca.org/mostra/anthony-mccall-breath-the-vertical-works