clip 16: Mark Rothko, arte e allestimento

la cappella de Menil a Houston

L’incarico.

Nella primavera del 1964 John e Dominique de Menil -gli stessi che nel 1981 affideranno a Renzo Piano il progetto di un museo per esporre la loro collezione -la Menil Collection– commissionano a Mark Rothko la realizzazione dei pannelli murali per quella che inizialmente doveva essere la cappella cattolica della University of Saint Thomas di Houston, ma che poi fu realizzata fuori dal campus e si decise fosse interconfessionale, ossia aperta a qualsiasi culto.

Si tratta di un’opera di straordinario fascino (16.1), che ha suscitato molte riflessioni e molte domande intorno alle ragioni che guidarono le scelte di Rothko -non solo per le cosiddette ‘tele nere’, che nere in realtà non sono-.

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E’ probabile che con l’incarico dei de Menil, Rothko si sia sentito ideale erede degli antichi maestri ai quali i potenti del Rinascimento affidavano il compito di rendere eterna la loro memoria.

Non può non aver pensato a Giotto, a Taddeo Gaddi,  a Filippo Lippi, al Ghirlandaio, alle loro cappelle per le grandi famiglie fiorentine -ad esempio i Baroncelli (16.2), i Bardi (16.3), i Peruzzi …- a Santa Croce, in Firenze,  o alla cappella degli Scrovegni (16.4) a Padova, o alla Sistina di Michelangelo… Non può non aver pensato ai capolavori che lui stesso aveva ammirato nei suoi viaggi in Italia (1950, 1959, 1966).

Ma, a differenza dei suoi predecessori, Rothko -come vedremo- non si limitò a ‘decorare’ uno spazio: questo era per lui impensabile.

In realtà, i de Menil avevano affidato il progetto dell’architettura della cappella di Houston a Philip Johnson, e -pur conferendo un gran potere decisionale al pittore- pensavano che Rothko e Johnson, restando ognuno nel proprio campo, potessero collaborare. Ma nei fatti la collaborazione tra i due fu tutt’altro che facile, e a un certo punto Johnson -forse esasperato dalle implacabili invasioni di campo dell’altro- rinunciò, e la patata bollente passò ad altri due architetti, Barnstone e Aubry.

Qual era il problema?

Il problema era che Rothko già da anni aveva idee molto chiare su come le sue opere dovessero essere esposte, per instaurare quello che a suo avviso era il corretto rapporto con l’osservatore. Il problema era che questo rapporto è stato una delle componenti fondamentali di tutta la sua ricerca pittorica.

Perché questa attenzione all’osservatore?

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Nel 1958, in una conferenza al Pratt Institute,  parlando del soggetto dei suoi quadri, Rothko ha affermato testualmente: i miei dipinti hanno a che fare con la scala dei sentimenti umani, con il dramma umano, per quanto io riesca a esprimerlo.

E allora, è perfettamente coerente che abbia poi aggiunto: in quanto mi sento coinvolto con la componente umana, voglio creare uno stato di intimità, una transazione immediata [tra l’opera e l’osservatore]. [1]

Proprio per creare questo rapporto, Rothko aveva cominciato da tempo a realizzare opere di grandi dimensioni: i dipinti di grande formato sono come drammi cui si prende parte in modo diretto[2]

Rothko voleva dare a ogni osservatore la sensazione di penetrare in un mondo sconosciuto, irreale, indistinto, che poteva essere tanto il paradiso quanto l’inferno. Creava questo effetto stendendo sulla tela dieci, dodici, quattordici, anche venti strati di colore sottili e trasparenti come carta velina -scrive Jan Brokken in Anime Baltiche [3] nel 2010-. Ogni strato si differenzia leggermente dal precedente, e così il rosso, o il nero, viene a essere formato da molte sfumature diverse di rosso o di nero.

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E aveva cominciato a riflettere sulla distanza tra l’opera e l’osservatore.

Già nel 1954, in occasione di una sua mostra all’Art Institute of Chicago, in una lettera alla curatrice Katharine Kuh aveva scritto: espongo i miei dipinti più grandi in modo che debbano essere affrontati prima di tutto a distanza ravvicinata, cosicché la prima esperienza sia quella di ritrovarsi dentro il quadro. E questo dovrebbe a ragione fornire all’osservatore la chiave della relazione ideale tra lui e il resto dei quadri[4]

La sua attenzione si era quindi estesa più in generale alle condizioni nelle quali è consentita la visione di ogni opera. Aveva cominciato a riflettere sull’organizzazione dello spazio in cui l’opera sarebbe stata esposta e, infine, come vedremo, sulle caratteristiche della luce.

A questo punto diventa chiara l’intransigenza di Rothko, diventano chiare le ragioni della sua invasione nel territorio che molti architetti vorrebbero fosse di loro esclusiva ‘proprietà’.

Cerchiamo ora di capire, passo passo, il contributo di Rothko al progetto della cappella, esaminando rapidamente alcuni dei disegni conservati nella Menil Collection. [5]

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La pianta

Limitiamo, per ora, la nostra attenzione alla pianta e all’interno della cappella. Tra i materiali disponibili esaminiamo, per semplicità, soltanto i disegni che sembrano registrare le quattro tappe principali di un percorso progettuale sicuramente molto più complesso.

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Il punto di partenza sembra un piccolo edificio a pianta centrale (16.5). Sulla forma essenziale di un quadrato, disegnato da Johnson, Rothko interviene suggerendo di trasformare la parete nord, sul lato opposto dell’ingresso, in una sorta di abside a tre lati. Non possiamo sapere se ha in mente le absidi della cappella dei Principi in San Lorenzo, a Firenze, o se sta già pensando ai trittici.

Nello step successivo Johnson mostra di accogliere il suggerimento dell’abside. Nel disegno aggiornato (16.6), però, Rothko moltiplica le linee spezzate dell’abside e introduce l’ipotesi di un poligono, dunque di una pianta centrale più complessa.

Nel terzo disegno (16.7) Johnson propone una croce greca, ma, per andare incontro alle richieste di Rothko, smussa gli spigoli tra le quattro absidi in modo da comporre al centro della croce un poligono ottagonale irregolare.

La leggibilità dell’ottagono è inoltre rafforzata dal tamponamento delle absidi est, ovest e sud.

 Il quarto disegno è la pianta finale 5 (16.8) della cappella.

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Alcune osservazioni sulla pianta.

1.

In generale, le correzioni ai disegni che abbiamo preso in esame fanno pensare che Rothko riflettesse quasi esclusivamente sullo spazio interno della cappella e che di questo spazio avesse forse già un’idea di fondo. Un’idea che si è poi progressivamente affinata nel confronto con gli architetti.

2.

All’inizio, Johnson sembra immaginare una cappella che posa su un terrapieno, una specie di ziggurat, che la alza al di sopra del piano di campagna, ma di questo aspetto Rothko, appunto, sembra non occuparsi.

3.

Tra il terzo e il quarto disegno appaiono importanti cambiamenti.

a) Nel terzo disegno, l’affaccio a tutta larghezza dell’abside sud sulla terrazza-sagrato e le sue scalinate sembra far assumere al complesso la forma di una croce latina.

E’ una scelta che sembra confermata nel quarto disegno -la soluzione finale-, dove peròl’abside sud -chiusa verso l’interno come le absidi est e ovest- viene allungata per ospitare un vestibolo d’ingresso, una sorta di nartece, forse ispirato alle chiese paleocristiane e bizantine;

b) il terrapieno scompare del tutto, e scompaiono tutti i gradini interni ed esterni;

c) la cappella e il sagrato -che ora posano sul piano di campagna- diventano componenti di un progetto più esteso che include la piscina nera di Philip Johnson e il Broken Obelisk di Barnett Newman che in essa si specchia. (16.1)

Il richiamo alla croce latina potrebbe essere forse in ossequio alla tradizione cattolica, cui appartengono i de Menil. La croce latina è ben riconoscibile nella foto aerea, disegnata dal volume dell’edificio. Ma appare solo all’esterno, ed è apparentemente contraddetta all’interno, dove, invece, resta confermato lo spazio centrale ottagonale -con un abside a nord-.

4.

Ma perché Rothko ha voluto uno spazio a pianta poligonale? Perché ha cercato una pianta con le caratteristiche geometriche di quella che nelle nostre clip abbiamo definito una rotonda? (link) 

Possiamo avanzare delle ipotesi.

Secondo un’ipotesi affascinante -e qui indimostrabile- Rothko potrebbe aver pensato a San Vitale, a Ravenna, che aveva visitato in uno dei suoi viaggi (16.9, 16.10).

Perché San Vitale?

Possiamo immaginare Rothko sedotto dalle dimensioni a misura d’uomo e dalle perfette proporzioni di quel piccolo e assoluto capolavoro, incantato dalla luce naturale che fa scintillare i mosaici, dalla penombra che accarezza e disegna lo spazio, e infine -forse soprattutto?- dalla coerenza straordinaria tra questi mosaici, i fantastici marmi a macchia aperta e lo spartito architettonico… (16.11, 16.12).

A San Vitale, in effetti, è davvero difficile separare l’architettura da quella che molti architetti della modernità definiscono ‘decorazione’.

Possiamo immaginare Rothko immerso e commosso in quello straordinario intreccio di luci ed ombre, spazio e strutture, marmi e mosaici.

Possiamo immaginarne il rapimento, l’esperienza travolgente: ecco, forse proprio l’esperienza che lui vuole trasmettere a chi si trova davanti alle sue opere.

Possiamo immaginare che Rothko abbia visto nell’horror vacui di San Vitale, nella contiguità -nella quasi tangibilità- tra arte e osservatore, proprio il fondamentale veicolo di quella esperienza immersiva.

Infine, -chissà?- forse è solo una coincidenza che la larghezza dell’ottagono della cappella di Houston sia identica -o quasi- a quella dell’ottagono centrale di San Vitale.

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Tuttavia, Rothko non aveva bisogno di ricordare San Vitale. Forse semplicemente pensava che l’immersione in una rotonda di quelle proporzioni -una sorta di avvolgente utero, sacro e antico come il mondo- avrebbe consentito il coinvolgimento totale dell’osservatore, la transazione immediata tra opera e osservatore.

Forse pensava anche che l’immersione totale fosse un passo avanti, più intrigante della distanza ravvicinata che teorizzava all’Art Institute di Chicago. Distanza ravvicinata che, beninteso, le dimensioni della cappella avrebbero continuato a garantire.

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Veniamo ai dipinti e alla loro distribuzione.

14 enormi pannelli che coprono le pareti della cappella, di cui è impossibile a un primo sguardo definire i colori. Neri o porpora, orlati di marrone, ma anche guizzanti di blu, viola, grigio e verde scuro, a seconda delle variazioni della luce che filtra dal soffitto e ancora di più a seconda del tempo che decidiamo di passare in quel luogo, scrive Alessandro Carrera. [6]

Ma non sono tutti uguali, e la loro distribuzione non appare affatto casuale (16.13, 16.14).

Sette pannelli sono costituiti da rettangoli neri dai contorni ben definiti e su sfondo marrone scuro. Gli altri sette virano verso un forte color prugna distinguibile a fatica dallo sfondo. Il gesto delle pennellate non è invisibile, ma è molto meno presente che nei mutevoli, sfumati, accesissimi rettangoli che resero celebre Rothko negli anni cinquanta, prima della svolta verso il buio. […]

I pannelli color prugna occupano l’abside [nord] e le pareti diagonali dell’ottagono (16.15). I pannelli neri, che non sono esattamente la copia l’uno dell’altro, sono disposti a trittico sulle pareti est e ovest (16.1616.17), con l’aggiunta di un singolo pannello a sud, sul muro del vestibolo (16.18). Nel trittico dell’abside, i pannelli sono alla stessa altezza dal suolo. Nei trittici ai lati, i pannelli centrali sono rialzati di venti centimetri rispetto agli altri due […]. [7]

Come Carrera segnala, l’indicazione dei colori in tutte le descrizioni non può essere presa alla lettera, poiché la percezione dei colori, nella realtà, varia molto secondo il variare della luce naturale del giorno. Anche nei reportage le fotografie danno risultati molto diversi, non solo al variare della luce naturale, ma anche delle modifiche al lucernario nel corso degli anni.

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Alla descrizione di Carrera qui citata occorre aggiungere alcuni dettagli, tutti legati alla costruzione di complesse simmetrie.

La simmetria è evidente nel trittico nord (16.15), inserito nella pur limitata profondità dell’unica abside presente. E’ composto, sì, di tre pannelli rettangolari che appaiono dipinti omogeneamente e che virano tutti al prugna scuro, ma il pannello centrale appare appena -quasi impercettibilmente- più chiaro dei due laterali, tra loro speculari.

La simmetria ritorna sulle pareti est e ovest, identiche e anch’esse speculari, nella composizione complessiva di trittici, riquadri delle porte e gioco delle ombre (16.16). Qui, nei trittici, non vi è variazione di tono del colore, ma -appunto- la simmetria è nelle dimensioni e nello sfalsamento dell’altezza da terra dei tre pannelli. La percezione della simmetria è poi rinforzata dai contorni -quasi cornici- di grigio tono su tono -già segnalati da Carrera- che come armoniche ripetono il tema e distinguono ogni pannello.

Lo stesso contorno -o cornice- inquadra l’unico pannello posto al centro della parete sud, tra i due vani d’ingresso. Questo è anche l’unico pannello che, nel suo quinto inferiore fa affiorare il profondo rosso scuro -o è ancora il prugna?- su cui posa l’oscurità dei quattro quinti superiori (16.18).

Dunque, un piano di simmetria attraversa da sud a nord, come uno specchio invisibile, tutta la cappella (16.19).

A questo punto si potrebbe essere tentati di tradurre -o di legare- gli elementi di questa simmetria speculare in molti possibili schemi (16.14), così come si è tentati di lasciare vagare l’immaginazione tra mille possibili simbologie.

Questo rigorosissimo ordine si presta volutamente a ogni lettura, anche e non soltanto religiosa.

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Unico dato certo è che il piano di simmetria, percepibile solo avviandosi via via verso l’interno, propone al visitatore un percorso, un cammino. Non è la Via Crucis, che alcuni suggeriscono. E’ un cammino libero, non unico né lineare, le cui anse cominciano nel meandro del vestibolo-nartece (come anche a San Vitale?), dove lasciamo il mondo e forse le scarpe, e che può condurre in una diversa dimensione, alla contemplazione, all’abbandono, all’immersione totale nel centro della cappella.

L’idea di un cammino potrebbe riavvicinarci alla simbologia della croce latina, ma è una metafora che non appartiene solo a quella simbologia. Croce latina e croce greca, entrambe invisibili, si compongono in quel centro, ove appare -delicata- la luce.

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Le pareti  

La ricerca della transazione immediata tra opera e osservatore non si ferma allo studio della loro prossimità e/o alla configurazione di uno spazio concettualmente circolare.

Nella lettera a Katharine Kuh [8] aveva anche scritto che siccome i miei quadri sono di grande formato  e siccome le pareti dei musei sono spesso immense e impressionanti, vi è il rischio che i quadri si relazionino alle pareti come superfici decorative. Sarebbe un’alterazione del loro significato […]. [9]

E’ il rifiuto del “quadro appeso al muro”, decorazione dei salotti aristocratici o borghesi, a favore di una visione totalizzante della pittura: non esplicito, ma chiaro, è dunque il pensiero ai mosaici di San Vitale e di Santa Maria Assunta a Torcello, e agli affreschi della cappelle in Santa Croce, o degli Scrovegni, o della Sistina…

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Rothko, però non fa mosaici né affreschi. La sua tecnica, l’olio su tela, consente dimensioni anche grandi, ma comunque limitate. Ecco allora la sua attenzione ad assembrare i pezzi piuttosto che a disperderli. Saturando la sala con il sentimento dell’opera -dichiara ancora nella lettera alla Kuh-, le pareti vengono annullate e l’intensità di ogni singola opera diventa più visibile […].

Poi, coerentemente sia con l’esigenza di saturazione delle pareti, sia con l’attenzione al rapporto fisico tra opera e osservatore, vuole installare i quadri in basso piuttosto che in alto, in modo particolare nelle tele di formato più grande, spesso vicine al pavimento quanto più possibile, perché è così che sono state dipinte.

Ribadisce questo concetto anche nel 1961, in occasione di una sua mostra alla Whitechapel Gallery di Londra, suggerendo che l’ideale sarebbe disporre le tele a non più di 15 cm da terra, e aggiungendo che se queste indicazioni non vengono rispettate, le proporzioni dei rettangoli si deformano e il dipinto si trasforma.

(Nota bene: in realtà, nella cappella le tele sono un po’ più alte, probabilmente per venire incontro alle esigenze di sicurezza. A queste si deve, tra l’altro, la presenza di esili basse transenne per evitare che i visitatori tocchino il colore (16.13)

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E’ chiaro che non può essere stato che Rothko a dettare le misure delle pareti della cappella: sono le massime dimensioni che lui era in grado di coprire integralmente -o quasi- con le sue tele. Probabilmente la necessità di realizzare superfici piane come le tele e l’attenzione alle proporzioni tra parete e dipinto sono all’origine anche del suo orientamento verso una pianta poligonale, poiché questa consente di ‘spezzettare’ le pareti senza alterare le dimensioni della sala.

Invece, è possibile che la misura dell’altezza delle pareti fosse stata discussa e decisa con Johnson fin dall’inizio, visto che questa appare già nei primi disegni di progetto e sostanzialmente mai più modificata.

E infine, probabilmente è stata la necessità di verificare la correttezza -e l’efficacia- di dimensioni e proporzioni di pareti e tele dipinte, è stata l’estrema meticolosità di Rothko a imporgli perfino di montare nel suo studio a New York un modello in grandezza naturale di una parte della cappella (16.20).

Il risultato di questa infinita ricerca e implacabile attenzione è oggi evidente. Nella cappella, la superficie delle tele -anche accorpate in trittici- occupa quasi totalmente le pareti, sfiorando -salvo che nella parete sud (16.18)- i vani delle porte e gli angoli interni dell’ottagono (16.15, 16.16, 16.17), quasi emulando l’horror vacui dei mosaici bizantini o degli affreschi delle cappelle rinascimentali, immergendo il visitatore nella circolarità delle pitture.

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La luce

Anche su come illuminare le sue opere Rothko aveva idee molto precise.

Per l’installazione dei suoi dipinti alla Whitechapel Gallery [10] dà indicazioni chiarissime: la luce -naturale o artificiale- non dovrebbe essere troppo forte: i dipinti hanno una loro luminosità e se c’è troppa luce i colori del dipinto si fanno slavati e la loro apparenza si altera. L’ideale sarebbe esporli in un ambiente illuminato naturalmente, così come sono stati dipinti.

Non vanno sovraesposti alla luce, né illuminati con dei riflettori alla ricerca di un effetto drammatico che comporterebbe un travisamento del loro significato.

Dovrebbero essere illuminati da molto lontano o in modo indiretto, fissando le luci verso il pavimento o il soffitto. Soprattutto, il quadro nella sua interezza va illuminato in modo uniforme e non insistito.

Lavorando al progetto della cappella, Rothko ha la possibilità di richiedere esattamente la luce che vuole, ed anche qui è esplicito: vuole la stessa luce che ha nel suo atelier a New York.

In più occasioni ribadisce la necessità di avere poca luce, naturale -o artificiale- zenitale, quasi una penombra morbida, resa omogenea anche grazie alle proporzioni e alla geometria dello spazio.

Non solo, anche il colore delle pareti incide sulla luce e sulla godibilità dei dipinti. Già nella stessa lettera alla Whitechapel Gallery aveva messo in guardia contro l’uso del bianco. Vuole invece pareti decisamente biancastre, con della terra d’ombra, riscaldate con un po’ di rosso. Se le pareti sono troppo bianche, contrastano di continuo con i dipinti […].

“Le tele  -secondo le parole di Rothko riportate da Jan Brokken- pongono domande all’osservatore e lo inducono alla meditazione. Se cerchi le forme abbastanza a lungo, alla fine rimescoli i colori e trovi la luce che hanno dentro”. Una luce che in Rothko possiede una dimensione mitica, sacra. [11]

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Nei disegni qui allegati non ci sono riferimenti espliciti alla luce, ma alcuni dettagli forse sono rivelatori.

In alcune delle prime ipotesi di progetto (16.21) Johnson -forse pensando al Pantheon- propone un lucernario al colmo di un’alta piramide di vuoto che sovrasta le pareti espositive.

Ma nel disegno le pareti espositive delle absidi -che ospiteranno i trittici- sono incassate sotto un basso soffitto, evidentemente anche per proteggerle da un illuminamento eccessivo.

Forse -viene da pensare- i pannelli singoli sulle pareti diagonali che separano le absidi sono più scuri degli altri proprio perché, almeno nelle prime fasi del progetto, è previsto che saranno più esposti alla luce.

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Un altro dettaglio rivelatore è il vestibolo d’ingresso. Una delle ragioni del nartece è certamente impedire alla violenta luce esterna di penetrare direttamente nella cappella e, nel contempo, preparare gli occhi dei visitatori alla penombra dell’interno.

D’altra parte, in qualsiasi tempio, -nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe, nelle pagode, etc.- la luce ha un significato simbolico. Il meandro dell’ingresso filtra la luce come filtra il mondo e i suoi abbagli, è il luogo della preparazione, del raccoglimento, dove ci si spoglia -e non solo delle scarpe-.

Tornando all’oculus, al lucernario al centro dell’ottagono, quando Johnson viene sostituito da Barnstone e Aubry,  la smisurata piramide scompare, sostituita dalle falde inclinate di un tamburo ribassato (16.22). Nel lucernario, uno scarabocchio accenna ad un velario, o un tendaggio, con la stessa funzione del paracadute montato da Rothko nel suo studio a New York: filtrare e moderare la luce esterna diurna.

Il problema dell’oculus, fin dall’inaugurazione della cappella, era che non si poteva avere nella cappella la luce naturale dell’atelier. La differenza di temperatura di colore e d’intensità della luce diurna tra New York  -latitudine ca 40°- e Houston -latitudine ca 29°- è la stessa, ad esempio, che c’è tra Napoli e Il Cairo.

La correzione della luce naturale al fine di avvicinarsi il più possibile a quanto richiesto da Rothko è stata l’oggetto di una ricerca che appare eroica e che si è materializzata in successivi esperimenti fino alla recente -e forse definitiva- ristrutturazione del lucernario curata da George Sexton Associates (16.23, 16.24, 16.25).

Un’ultima considerazione. Anche in questa materia Rothko aveva dato indicazioni inequivocabili. Ha dunque ragione Carrera quando scrive che i pannelli non devono essere considerati come opere autonome, ma in relazione alla luce che filtra dallo spazio aperto nel soffitto[12]

Ma, stando a quello che abbiamo visto finora, vanno considerati in relazione a tutta la configurazione della cappella.

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Conclusioni 

Il confronto incrociato tra la cappella de Menil a Houston, le idee di Rothko che troviamo frugando tra i suoi scritti, e i disegni di progetto conservati presso la Fondazione de Menil, stimola non poche riflessioni nel territorio dell’allestimento, argomento centrale di queste nostre clip.

Riflessioni molto diverse, a seconda della lettura che possiamo dare di quell’opera straordinaria.

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Opera site-specific

Secondo un’opinione molto diffusa, i dipinti di Rothko a Houston costituiscono un esemplare caso di opera d’arte site-specific. I sostenitori di questa opinione affermano che quell’opera -le quattordici tele, le loro dimensioni, la loro collocazione, la loro distribuzione, il percorso, etc.- è stata concepita e realizzata strettamente in relazione allo spazio cui era destinata.

All’obiezione che le tele sono state realizzate prima della cappella, poi, essi rispondono che Rothko, non potendo lavorare sul luogo -come Giotto o Michelangelo-, se ne fece costruire nel suo studio il modello in scala 1:1.

Se accettiamo questa lettura, l’allestimento si riduce sostanzialmente alla verifica del rispetto del progetto, e a qualche ultimo dettaglio (controllo della intensità della luce, di temperatura, umidità…).

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Sito painting-specific

Tuttavia, chi parla di opera d’arte site-specific sembra sottovalutare -o ignorare- il contributo di Rothko al progetto architettonico -anche in aperto contrasto con Philip Johnson- ben documentato dai disegni conservati alla Fondazione de Menil.

Chi parla di opera d’arte site-specific sembra dunque non aver compreso che la cappella è uno spazio progettato non semplicemente per rispettare le prescrizioni di Rothko circa i modi di esporre le sue opere, ma in realtà per coordinarle e perfezionarle.

Con questa lettura, si propone invece l’idea che nella cappella di Rothko il metalinguaggio [13] che chiamiamo allestimento introduca nel proprio armamentario anche l’architettura, e ne adoperi e declini il linguaggio al fine di esporre i dipinti.

Perciò, rovesciando la lettura precedente, e giocando con le parole, se l’architettura è stata concepita e realizzata strettamente in relazione ai dipinti, potremmo avere la tentazione di sostenere che ci troviamo di fronte alla realizzazione di un sito painting-specific.

 

Due osservazioni

La prima. Questa lettura, ben confortata da quanto abbiamo visto finora, ci riporta ad una delle tesi che stanno alla base delle nostre clip: l’allestimento è il processo -e il risultato del processo- con il quale curatore e allestitore configurano l’esperienza che il visitatore farà delle cose -o delle idee- esposte (clip 00, punto 2).

La seconda. Non è affatto irrilevante, però, che nel progetto e nella realizzazione della cappella de Menil autore, curatore e allestitore coincidano nella persona di Rothko.

Se ammettiamo che nella cappella Rothko non si limita a esigere, come al solito, il rispetto degli accorgimenti espositivi consueti, ma usa anche l’architettura come un mezzo per ottenere la transazione immediata tra opera e osservatore, qui paradossalmente cambia tutto.

Prima, in tutte le gallerie dove aveva esposto le sue opere, aveva sempre cercato le condizioni che permettessero all’osservatore di immergersi nei suoi dipinti. Ora, nella cappella, configura spazio e dipinti in modo che insieme inglobino -sommergano- l’osservatore.

 

Arte & allestimento

Proprio quest’ultima osservazione potrebbe suggerire un dubbio e una terza -e diversa- lettura.

Il dubbio è che, a Houston, separare dipinti e architettura, vedere l’opera d’arte e il suo allestimento come azioni distinte potrebbe essere fuorviante. Potrebbe essere perfino insostenibile, quasi come pretendere di separare gli spioncini e quello che si sbircia dietro la porta in legno nell’ultima -e quasi contemporanea- opera di Duchamp, Étant donnés. (16.26)

In entrambi i casi si fa a pezzi un’opera.

In entrambi i casi, invece, è evidente che un unico progetto presiede ad ogni sua parte.

Nonostante Rothko abbia parlato tutta la vita soltanto e sempre di come esporre le sue opere,  appare evidente che, alla fine del suo percorso, luce, spazio, colore e materia costituivano un insieme inscindibile: erano -e sono- componenti coessenziali della sua opera. A Houston Rothko introduce l’allestimento e tutti i suoi mezzi nel proprio processo creativo.

Restando nei confini dei temi affrontati in queste clip, potremmo dire che nella cappella la pittura e la sua installazione -quello che ipostatizzando chiamiamo allestimento- erano e sono ‘una cosa sola’, con un solo scopo: l’esperienza che ne farà l’osservatore.

Noi sappiamo per certo, come abbiamo visto, che secondo Rothko l’allestimento poteva cambiare il rapporto tra i suoi dipinti e l’osservatore, ma non possiamo sapere se, alla fine, egli fosse consapevole di avere creato a Houston qualcosa che era oltre i suoi stessi dipinti, di essere andato ben oltre ogni dogma, ogni tassonomia accademica delle arti. Lui, pittore, di avere messo in crisi l’autonomia della pittura.

Non conosciamo documenti che attestino questa ipotesi, dunque non possiamo saperlo. E, in realtà, sembra piuttosto improbabile, mentre la consapevolezza di questa frattura, e degli orizzonti che essa apre all’arte, appare ben chiara in Duchamp.

Ma il fatto -la cappella- resta.

 

Ultima osservazione. Le prescrizioni -e anche l’uso dell’architettura- di Rothko non sono valide sempre e per qualsiasi mostra. Ogni mostra è diversa, poiché ogni volta variano cosa, come, dove e perché esporre.

Ma resta il fatto che ogni mostra, a volte anche a dispetto o all’insaputa di chi l’ha realizzata, è come un organismo, è cioè qualcosa di più della somma degli organi che lo compongono, un tutt’uno che ogni volta determina il significato di ogni sua componente e l’esperienza che possiamo farne.

Un tutt’uno indissolubile che in queste note abbiamo chiamato struttura espositiva, macchina significante, luogo della mostra, luogo dell’allestimento, etc. In modi diversi a seconda degli occhiali che indossavamo.

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[1] Intervento al Prat Institute, in Mark Rothko, Scritti sull’Arte 1934-1969, a cura di Miguel Lopez-Remiro, Roma 2006, pagg. 179 e 180.

[2] Ibidem, pag. 180

[3] Jan Brokken, Anime Baltiche, Iperborea, Milano 2014, pag. 404.

[4] Lettera a Katharine Kuh, ibidem pag. 137.

[5] La maggior parte dei disegni che mostrano le fasi del progetto sono trovati in internet nell’interessantissima documentazione raccolta da Eric M. Wolf in The Rothko Chapel: the Evolution of a Sanctuary for all, per Head Librarian, The Menil Collection, October 1, 2015, The Museum of Fine Arts, Houston, che non abbiamo potuto leggere.

https://www.academia.edu/16541953/The_Rothko_Chapel_The_Evolution_of_a_Sanctuary_for_All

[6] Alessandro Carrera, nel più interessante saggio che io conosca sulla cappella de Menil, La luce invisibile e la consistenza del buio, in Il colore del buio, Ed. Il Mulino, Bologna 2019, pag. 14.

[7] Ibidem, pag. 16

[8] In Mark Rothko, Scritti sull’Arte 1934-1969, a cura di Miguel Lopez-Remiro, Roma 2006, pag. 137, Lettera a Katharine Kuh, 25 settembre 1954,

[9] E’ forse per questo che nell’ultima sistemazione coeva al rifacimento del lucernario centrale, le superfici spioventi del tamburo, al di sopra delle tele, sono state dipinte di scuro, lasciando chiare solo le pareti espositive.

[10] in Mark Rothko, Scritti sull’Arte 1934-1969, a cura di Miguel Lopez-Remiro, Roma 2006, pag. 201.

[11] Cfr. nota 3, pag. 404.

[12] Cfr. nota 6, pag. 25

[13] circa l’allestimento come metalinguaggio, vedi la voce Allestimento, in Giochi di parole (link); sullo stesso tema vedi anche clip 7 e clip 10.

??_16.1_google maps Houston

16.1  Rothko Chapel (de Menil Chapel), Houston

https://www.google.it/maps/@29.7374162,-95.3966518,180m/data=!3m1!1e3

 

 

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16.2 Taddeo Gaddi, cappella Baroncelli, Storie della Vergine, 1328-1338 circa, Firenze, Santa Croce

https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_Baroncelli

 

 

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16.3 Giotto, cappella Bardi, Storie di San Francesco, 1317-1321 circa, Firenze, Santa Croce – esploso

https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/19_maggio_14/giotto-via-restauro-cappella-bardi-80f2b218-75ac-11e9-ab5b-6e5ae3374c33.shtml

https://www.santacroceopera.it/opere/giotto-storie-san-francesco/#&gid=1&pid=1

 

 

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16.4  Giotto, cappella degli Scrovegni, 1303-1305, Padova

https://www.beniculturali.it/luogo/cappella-degli-scrovegni

 

 

 

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16.5  Philip Johnson, con interventi e correzioni di Mark Rothko, progetto della S.Thomas Chapel – pianta

courtesy of The Menil Collection, Houston, Texas, object number 1986-22.01 D

https://www.academia.edu/16541953/The_Rothko_Chapel_The_Evolution_of_a_Sanctuary_for_All

 

 

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16.6  Philip Johnson, con interventi e correzioni di Mark Rothko, progetto della S.Thomas Chapel – pianta, 1964

courtesy of The Menil Collection, Houston, Texas, object number 1986-21.10 D.

https://www.academia.edu/16541953/The_Rothko_Chapel_The_Evolution_of_a_Sanctuary_for_All

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16.7  Philip Johnson, con interventi di Mark Rothko, progetto della Rothko Chapel – pianta, 1964

courtesy of The Menil Collection, Houston, Texas, object number 1986-20.01 D.

https://www.academia.edu/16541953/The_Rothko_Chapel_The_Evolution_of_a_Sanctuary_for_All

 

 

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16.8  Rothko Chapel, pianta quotata definitiva

Courtesy of the Rothko Chapel

https://www.x-traonline.org/article/opening-inside-out

 

 

 

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16.9  San Vitale, Ravenna, 532-547 – pianta

https://altmarius.ning.com/profiles/blogs/la-basilica-di-san-vitale-a-ravenna-e-i-suoi-mosaici-capolavori-d

 

 

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16.10  San Vitale, Ravenna, 532-547 – esterni

 

 

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16.11  San Vitale, Ravenna, 532-547 – interni

https://www.terreincognite.me/2020/01/san-vitale-di-ravenna-e-la-dimensione.html

 

 

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16.12  San Vitale, Ravenna, 532-547 – interni

 

 

 

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16.13  Rothko Chapel, diagramma della distribuzione delle tele

da Alessandro Carrera, Il colore del buio, Ed. il Mulino, Bologna 2019, pag. 27

 

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16.14 giochi su percorsi e distribuzione

 

 

 

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16.15  Rothko Chapel, interni

photo: Paul Hester

https://www.pacegallery.com/search/?query=rothko+chapel

 

 

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16.16  Rothko Chapel, interni

photo: Paul Hester

https://www.pacegallery.com/search/?query=rothko+chapel

 

 

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16.17  Rothko Chapel, interni

photo: Paul Hester

https://www.pacegallery.com/search/?query=rothko+chapel

 

 

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16.18

Rothko Chapel, interni

photo: Bryan Schutmaat

https://www.wsj.com/articles/inside-the-holy-restoration-of-houstons-rothko-chapel-11599568084

https://www.exibart.com/libri-ed-editoria/rothko-chapel-50-anni-rizzoli-volume/

 

 

 

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16.19  Rothko Chapel, sezione nord-sud

Rendering courtesy of Architecture Research Office

https://archinect.com/news/article/150198422/aro-s-renovated-rothko-chapel-set-to-reopen-in-september

https://www.aro.net/rothko-chapel/

 

 

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16.20  Mark Rothko nel suo studio con i dipinti per la cappella. 1965

photo: Alexander Libermann  

https://dailyrothko. tumblr.com/post/646925060307845120/alexander-liberman-mark-rothko-in-his-studio-with

 

 

 

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16.21  Philip Johnson, progetto della Rothko Chapel, sezione schematica nord-sud, 1964/1965

courtesy of The Menil Collection, Houston, Texas, object number 1986-20.02 D.

https://www.academia.edu/16541953/The_Rothko_Chapel_The_Evolution_of_a_Sanctuary_for_All

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16.22  Eugene Aubry, Rothko Chapel – sezione nord-sud con schizzo del velario inserito nel lucernario, 1969

courtesy of The Menil Collection, Houston, Texas, object number 1986-20.04 D

https://www.academia.edu/16541953/The_Rothko_Chapel_The_Evolution_of_a_Sanctuary_for_All

https://evolutioncustombuilt.blog/2019/05/04/houston-and-the-sublime-atmosphere-and-abstraction/

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16.23  Barnstone and Aubry Architects, Rothko Chapel, 1972, interni con il lucernario originale scoperto

Courtesy of the Rothko Chapel and Menil Archives, Houston

https://www.x-traonline.org/article/opening-inside-out

https://evolutioncustombuilt.blog/2019/05/04/houston-and-the-sublime-atmosphere-and-abstraction/

https://www.houstonpublicmedia.org/articles/news /2017/03/16/192214/a-new-opera-celebrates-the-rothko-chapel/

 

 

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16.24  Rothko Chapel, interni con il lucernario oscurato

photo: Hickey-Robertson

https://www.facebook.com/RothkoChapel/posts/2217027855068337

https://www.houstonpublicmedia.org/articles/shows/houston-matters/2020/08/21/380189/rothko-chapel-finally-comes-to-light/attachment/7  skylight-with-aubry-deflection-baffle-1978_photo-by-hickey-robertson/

 

 

??_16.25_??_16.18ter___im-227760

16.25  Rothko Chapel, George Sexton Associates lighting design per l’oculus

photo: Bryan Schutmaat

https://glasstire.com/2020/09/09/a-sneak-preview- of-the-newly-renovated-rothko-chapel/

 

 

??_16.25____16.18quatwer__im-228348

16.26  Rothko Chapel, la tela sulla parete sud

photo: Bryan Schutmaat

https://www.wsj.com/articles/inside-the-holy-restoration-of-houstons-rothko-chapel-11599568084

https://coolpoem.tistory.com/entry/Rothko-Chapel

 

 

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16.27  Marcel Duchamp, Etant donnés, 1969

oggi al Philadelphia Museum of Art

http://centenaireduchamp.blogspot.com/2018/01/8-tout-etant-donne_5.

htmlhttps://slidetodoc.com/dada-doute-de-tout-dada-est-tatou-tout/

https://www.latestatamagazine.it/2021/02/etant-donnes-lultima-opera-di-duchamp-e-un-gioco-di-sguardi/

https://www.lespressesdureel.com/EN/ouvrage.php?id=1902