Scenari del mostrare
Scenari del mostrare
alcune riflessioni, progetti ed esperienze su struttura narrativa e nuove tecnologie nell’allestimento espositivo
in Modo, n°205, luglio-settembre 2000, pp. 38-43
Primo scenario
Due amici, uno dei quali non vedente, visita una mostra antologica dello scultore Mario Negri, in un grande padiglione industriale.
Dall’ingresso si avviano verso l’allestimento, posto al centro del vasto spazio completamente buio. E’ la luce sulle sculture che, da lontano, indirizza il primo, mentre una passatoia ruvida, dello stesso grigio scuro del pavimento, guida il secondo.
Arrivati in prossimità delle prime opere, si accorgono che il suono dei loro passi e delle voci sommesse è completamente assorbito dalle quinte che articolano lo spazio -realizzate con pannelli fonoassorbenti e ricoperte di pesante velluto- e riecheggia invece nel buio delle lontane, invisibili, pareti del padiglione. In mezzo, il percorso e le sculture cronologicamente ordinate, segnalate anche da percettibili rilievi del pavimento. Il buio e l’eco del vuoto a sinistra, la luce e il silenzio sordo della materia inerte a destra, li accompagneranno lungo il cammino a spirale, che, avvolgendosi e a volte interrotto, consente scelti riscontri tra temi ricorrenti nella vita dell’autore. La luce, concentrata sulle sculture, disegna i chiaroscuri. Le sculture -nessuna è particolarmente grande- si possono toccare, accarezzare. Le superfici, di diversa consitenza, sono calde sotto la luce e fredde nell’ombra. In breve: da un lato luce, caldo, pieno, dall’altro buio, freddo, vuoto.
Secondo scenario
Una coppia di studenti decide di andare a visitare una mostra sul Minimalismo.
All’ingresso, digitando sui loro cellulari, o semplicemente parlando al microfono degli auricolari, hanno modo di scegliere tra diverse possibilità. Prima di tutto, tra una visita guidata, -a misura del tempo di cui dispongono o a tema: musica o arti visive o industrial design, etc.- o una visita libera. Quindi, se procedere separatamente o insieme, e avere perciò le stesse informazioni.
Scegliendo una visita guidata, una voce -nell’auricolare del loro cellulare- li condurrà lungo percorsi più o meno completi, mentre un’altra o più voci illustreranno con diversa attenzione le tappe del loro cammino.
Nelle sale dedicate alle arti visive o al design, potranno in ogni momento soffermarsi ed ottenere più informazioni -su opere o insiemi che attirino il loro interesse- soltanto segnalandolo sottovoce al microfono di uno qualsiasi dei loro auricolari, per riprendere poi il percorso prescelto o cambiare itinerario.
Se la visita è libera, potranno muoversi a piacimento. All’ingresso di ogni sala la voce negli auricolari spiegherà l’insieme delle opere raccolte. Avvicinandosi poi ai singoli oggetti, le informazioni su ognuno di essi terranno conto di quelle già avute e di quanto già visto. Se si fermeranno a lungo di fronte a un oggetto, o a richiesta, potranno avere informazioni più complesse -sull’opera, sulle tecniche, sulle opere compresenti, su vita e pensiero degli autori, etc.-. Di ogni opera potranno chiedere che informazioni ed immagini siano inviate per posta elettronica al loro computer, a casa.
Se non vogliono assistenza, possono sempre interrompere il flusso di informazioni. Chiedere di ascoltare brani di musica -di Glass, Reich, etc., scelti da loro oppure proposti automaticamente-, o procedere nel silenzio.
Terzo scenario
Nella stessa mostra, vi è una sezione dedicata alla musica. In ogni sala l’ologramma di un autore dialoga con un grande del passato. Se li interrogheranno, i due interromperanno la conversazione, si rivolgeranno verso i nuovi interlocutori e risponderanno, l’uno o l’altro, a domande su determinati argomenti -criteri compositivi generali, spiegazioni su singoli brani, cenni biografici, etc.-. Quindi, l’autore presentato, proporrà l’ascolto di qualche brano che, a richiesta, verrà eseguito dagli ologrammi di tutti gli strumenti.
…
La tecnologia per realizzare tutto questo esiste già [1]. I problemi relativi alla realizzazione della struttura espositiva [2] di queste mostre immaginarie sono in parte nel costo -richiedono know how e investimenti superiori agli standard correnti- e, forse in misura maggiore, nello iato tra la formazione di buona parte degli operatori e la rivoluzione culturale innescata dalle cosiddette “nuove tecnologie” -componente non secondaria della quale è una ritrovata profonda attenzione alla pluralità delle percezioni sensoriali e, coerentemente, alla cultura delle diversità-.
Al di là delle apparenze, invece, tra le mostre descritte ed una qualsiasi esposizione dei nostri giorni, non emergono significative differenze circa la struttura narrativa: nella logica, cioè, che presiede al sistema di relazioni tra cose o eventi esposti, o, in una diversa prospettiva, nelle ragioni e nella forma delle funzioni assolte dalla struttura espositiva.
Stabili da quasi un secolo, le forme della narrazione proprie del mostrare contemporaneo appaiono essenzialmente ricondubili alle due figure retoriche -prima che architettoniche- della galleria e della rotonda [3].
Le due figure -le cui possibili espressioni concrete continuamente si sovrappongono- costituiscono un ossimoro, le cui antitesi ipostatizzate possono rivelare alcuni aspetti della complessa realtà del fare e del visitare una mostra, ma anche lo spessore e il ruolo del tempo, convitato invisibile ma essenziale dell’esposizione e del visitatore.
La prima figura, muovendo dall’idea di un ordinamento lineare, propone i concetti di sequenza e di diacronicità, perciò di causalità o gerarchia, quindi di direzione, di percorso -più o meno palesemente- guidato.
La seconda riassume in uno spazio circolare l’idea di un ordinamento fondato sulla compresenza e sulla sincronicità, dunque sulla costruzione di contesti, dove il percorso viene proposto come -limitatamente- libero.
La galleria denuncia l’inevitabilità di una sintassi, quasi una consecutio temporum, che tenta di dettare le regole di ogni possibile nesso tra le componenti in gioco.
In questa metafora il curatore [4] costruisce una proposizione, dove le parole sono gli oggetti. Atto sostanzialmente solipsista: il visitatore quasi non c’è, poiché superfluo. La logica dei nessi vive anche senza di lui. La proposizione è autoreferenziale, decontestualizzata. Le parole ignorano la pagina in cui verranno composte.
La rotonda evoca un assetto paratattico. Anche qui le regole dei nessi sono date, implicite nella composizione di un contesto comunque dato. Tuttavia il movimento -e dunque il tempo- del visitatore o della sua attenzione consentono di creare differenti costellazioni: qui è una logica prospettica che organizza, nella profondità del campo visivo, l’ordine di riscontri e relazioni -secondo variabili, ma circoscritte, combinazioni-.
In un panorama più ampio, la complessa struttura della mostra può utilmente essere confrontata con un’azione scenica.
In questa nuova metafora il curatore analizza cose ed eventi, ne rompe l’autonomia, li destruttura: costruisce la mostra come un racconto nel quale i personaggi sono eventi o cose -o loro frammenti- e la trama è nelle ragioni che, tra essi, introducono ruoli e scelte, connessioni e differenze.
Nella galleria il visitatore è uno spettatore, paradossalmente immobile, di fronte al quale scorre la sequenza delle scene.
Nella rotonda, il visitatore è egli stesso attore, anche se in una sceneggiatura comunque scritta da altri. Non può cambiare i ruoli o le relazioni tra gli oggetti esposti, ma costruisce una propria sequenza spaziale e temporale tra le molte -ma non infinite- possibili.
Nel triangolo tra visitatore, opere e curatore, la narrazione propria della mostra -nella galleria come nella rotonda- misura e dà forma a reciproche essenziali distanze. La narrazione comporta una sorta di inevitabile alienazione tra loro. Alienazione opposta all’ineffabile pienezza -e coerenza, necessità- del fare e del fatto, ma tuttavia conditio sine qua non della comprensione e della consapevolezza.
Nel gioco delle ipostasi emerge un paradosso. A ben vedere, la figura della rotonda mostra di comprendere e poter inscrivere nelle proprie le regole della galleria. La relazione inversa non è data.
Fuori dalla metafora, il paradosso rivela come la contestualità e la compresenza, vale a dire il rapporto diretto, materiale, tra il visitatore e cose o eventi esposti sia il tratto primitivo -benchè non unico: la reductio ad unum è inapplicabile- della mostra, il luogo della differenza con le altre forme di comunicazione nell’era della riproducibilità e della simulazione.
Il visitatore è immerso in un processo cognitivo complesso, prodotto, nel tempo e nello spazio della mostra, dalla continua interazione tra rotonda e galleria, tra simultaneità e sequenza temporale, tra opera e contesto. Lo spazio si configura come un interfaccia. Il visitatore in ogni momento interagisce con esso e con cose o eventi esposti, opera confronti e spostamenti tra modi di conoscenza diversi: il sapere sotteso alla narrazione e quello suo proprio, le relazioni proposte dalla mostra e quelle da lui supposte, l’esperienza sensibile e le costruzioni della memoria.
La mostra, come un rinascimentale Teatro della Memoria, lega loci e imagines in una provvisoria metafora architettonica di spazî mentali. Implica un processo cognitivo non lineare, sempre oscillante tra attuale e virtuale, tra linguaggi logici impliciti e linguaggi analogici espliciti, un processo fatto di salti, scelte e associazioni, alla ricerca o a fronte di un plausibile -definito- ordinamento.
La visita di una mostra si configura sempre come un’esperienza -più o meno consapevolmente- interattiva e comunque ipertestuale.
La struttura narrativa della mostra, costruita sul binomio linearità/circolarità dell’interazione tra visitatore e differenti sistemi significanti, non può temere una estensione di questi. L’allargamento dell’attenzione dalla vista alle altre forme di percezione sensoriale e l’ingresso delle nuove tecnologie [5] tra i mezzi della struttura espositiva appaiono coerenti alle forme di esperienza e di conoscenza di cui è portatrice.
Molte tra le tecniche della realtà aumentata o della realtà artificiale, come quelle descritte in apertura nel primo e nel secondo scenario -con o senza l’ausilio di protesi- possono essere immerse, invisibili, nello spazio della mostra.
Nel primo scenario, il visitatore -guidato lungo un percorso sostanzialmente sequenziale- è indotto a corrompere il primato della vista e a ri-conoscere tatto e udito nella percezione di materia e spazio. L’apertura a orizzonti sensoriali rimossi dalla cultura dominante può avviare surrettiziamente una riflessione su tale cultura e sulla società ad essa inerente.
Lo spazio della mostra è “aumentato”: interagisce col visitatore nel territorio che le è più proprio, nell’esperienza diretta di cose ed eventi.
Nel secondo scenario, i movimenti del visitatore e una protesi ormai irrinunciabile, il cellulare, sono utilizzati come elementari strumenti d’accesso a ipertesti -o ipermedia-, introdotti a sostituire, e rendere più potente e versatile, il normale apparato informativo della mostra.
Anche qui lo spazio interagisce, ma per aumentare e strutturare l’informazione. I differenti linguaggi dello spazio e dell’informazione testuale comportano tempi e forme di esperienza tra loro intraducibili. La loro contiguità ripropone il problema, ma anche il fascino, della configurazione orientata e simultanea di sistemi semantici diversi.
Nel progetto della mostra e nella sua realizzazione, tutte le tecniche investite e le forme di riflessione loro implicite, per poter essere componenti della struttura espositiva, devono mettere in crisi la propria autonomia, restare inconcluse, in sospeso al limite della forma.
L’architettura dell’ipertesto, per confrontarsi con il teatro della memoria proposto dalla mostra, è tenuta a restare interrotta, a correlare tempo, dimensioni e struttura dell’informazione con le metafore di cose, eventi e spazio della mostra.
D’altra parte, l’ipertesto -o ipermedia-, privato del contesto, induce all’aumento vertiginoso della quantità d’informazioni disponibili e ordinate nello stesso spazio. “[…] I termini di lontano e vicino, qui e altrove, prima e dopo, si fondono in unico luogo e momento” [6]. Anticipo della realtà virtuale, l’ipertesto svincolato diviene autoreferenziale, può proporre una macchina celibe della testualità, un labirinto borgesiano.
L’esplosione dello spazio e del tempo, esiziale per la mostra, racchiude invece, forse, l’autonomo destino dell’ipertesto.
Nel terzo e ultimo scenario di questa breve rassegna, i mentori del racconto sono due avatar [1], vale a dire le reincarnazioni virtualmente viventi di persone vive o morte da secoli.
Anche qui l’ipertesto stabilisce le regole e i confini dell’interazione tra visitatore, informazione e evento. Le mentite spoglie di un nostro simile -a noi ben più connaturali perfino di un cellulare- richiamano l’attenzione a un altro repertorio -suadente e irrinunciabile- della mostra: la finzione.
Decontestualizzazione e straniamento affliggono non solo la musica -da quando un’orchestra filarmonica può essere contenuta in un pezzo di plastica-, ma in realtà qualsiasi oggetto di una mostra. Letteralmente deportate dai loro luoghi d’origine, se non già nate apolidi, le opere esposte reclamano almeno la finzione di un ambiente di riferimento, il riverbero di uno spazio reale oppure sfondi e riscontri che ne giustifichino presenza e identità.
L’allestimento è un gioco di simulazione, a volte spettacolare. Ludico non è solo il territorio abituale degli avatar -nei videogiochi di ruolo di tutto il pianeta-, ma, più o meno esplicitamente, il rapporto cui è invitato il visitatore.
La levità del gioco, da sempre essendo artificio di conoscenza, è perciò stesso qualità preziosa del mostrare.
Negli scenari immaginati, la realtà artificiale e la realtà aumentata appaiono come nuove tecnologie -del linguaggio e della conoscenza- accolte nel gioco complesso della struttura narrativa della mostra.
Nel gioco possono inserirsi, rispettandone le regole. Tuttavia, “le tecnologie non sono semplici aiuti esterni, ma comportano trasformazioni delle strutture mentali […]” [7]. La loro interiorizzazione, può cambiare quelle regole, aprendo la strada a nuovi giochi d’apprendimento o a diversi -forse oggi impensabili- scenari del mostrare.
[1] Nel primo scenario: tecniche tradizionali e infrarossi per rinforzare le differenze di temperatura, nel progetto di A. Giustolisi, R. Nicora, S. Rosati, R. Tosi e D. Bullato per il Laboratorio di architettura d’interni e allestimento coordinato da P.P. Vidari, C.d.L. in Disegno Industriale, Politecnico di Milano, a.a.98-99.
Nel secondo scenario: progetto HiperAudio, di D. Petrelli, Tecnologie Cognitive e della Comunicazione, ITC-IRST, Povo-Trento, e tecnologie vocali GSM, secondo le ricerche di D. Pasinato per il Laboratorio citato.
Nel terzo scenario: ologrammi integrano l’idea di un’installazione realizzata al Musée d’Archéologie et d’Histoire di Montrèal. Avatar è termine e concetto induista col quale, in altri contesti, il MIT di Boston designa questa tipologia di interfaccia.
[2] Circa la struttura espositiva -il complesso degli oggetti e dei mezzi di un’esposizione-, vedi N. Marras, Una logica della rappresentazione, in Rassegna n°10, Bologna 1982, pag.12.
[3] Per galleria e rotonda, in un’analisi dei musei d’arte, vedi anche S. Zunzunegui, Le labirinthe du regard – Le musée comme espace du sens, in Travaux du Centre de Recherches Sémiologiques, n°64, Neûchatel 1996, pag.91.
[4] Con il termine curatore e allestitore vengono qui designati i relatori, di norma distinti, del cosa e del come mostrare.
[5] Con l’evidente eccezione della realtà virtuale, che, per sua propria natura, non sembra ammettere un dialogo con la mostra, sostituendola tout-court.
[6] G. Belotti, Del virtuale, Milano 1993, pag.39.
[7] W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna 1986, pag.124.