Dialogo nel Buio, mostra Quando il latte diventa Centrale,
mostra Idoli – il potere dell’immagine, raccolta archeologica Collezione Pallavicini
Premessa.
Nelle clip precedenti abbiamo cominciato esaminando i percorsi -cosiddetti- lineari e le loro punteggiature, arrivando poi ad un’idea di percorso più complessa.
Abbiamo visto come gli oggetti di una mostra possano più facilmente ‘accordare’ le loro relazioni reciproche quando vengono esposti tra -quasi- asettiche pareti bianche o grigie.
Abbiamo anche visto come prenda forma il luogo della mostra, quando, davanti agli occhi del visitatore, il gioco di traguardi, di sfondi e riscontri coinvolge nella messa in scena gli oggetti esposti, i loro supporti e gli spazi che li ospitano.
Nel luogo della mostra, i contesti, se ben orchestrati, possono diventare ‘concerti’ di opere, apparati espositivi ed architettura -come abbiamo trovato, talvolta, in alcune mostre o musei-. Se incontrollati, possono invece confondere il visitatore, produrre rumore o stonature.
L’allestimento espositivo è quell’insieme di pratiche chiamato a dirigere proprio tutto questo: dunque, le relazioni tra le opere esposte, le relazioni tra le opere e lo spazio in cui sono esposte, le relazioni tra questo spazio e il luogo che ospita l’esposizione, e, infine, soprattutto, l’esperienza che di tutto questo farà il visitatore.
L’allestimento è il processo attraverso il quale si inventa e si realizza il luogo della mostra, è il processo che configura l’esperienza del visitatore.
Come dicevamo, Il luogo più ‘semplice’ -ossia quello che crea meno confusione, quello che consente di governare facilmente tutte le relazioni, e che si presta ad accogliere quasi qualsiasi esposizione- sembra essere uno spazio il più possibile privo di connotazioni, delimitato da pareti -e spesso anche pavimenti e soffitti- di colore bianco -o anche grigio-. Non casualmente è anche quello più ricorrente, anche nelle gallerie d’arte.
Vi è, però, un altro strumento che -quasi nascondendo il luogo ospite- permette di selezionare attentamente le componenti attive dell’allestimento: uno strumento altrettanto efficace, ma molto più drammatico, più teatrale del white cube.
E’ l’oscurità, il buio.
Nella realtà esistono tanti gradi di oscurità: il buio assoluto -quello che cancella ogni percezione visiva dello spazio- è tecnicamente molto, molto difficile da ottenere.
Anche allargando lo sguardo fuori dal nostro territorio, sappiamo bene che non è sufficiente chiudere gli occhi per trovare il buio: chiudendo gli occhi vediamo il rosso scuro, il bureus o burius dei latini.
Il buio, quello vero, è soltanto dei ciechi, come racconta un altro ramo dell’etimologia: l’etrusco puia, che starebbe per vedovo, o per privo.
Per i vedenti il buio sembra soprattutto un’idea.
Il buio, la mancanza di luce, è la metafora di quello che non sappiamo, dell’ignoto. Essere al buio significa ignorare, tenere al buio significa nascondere, non informare.
Sposo della notte, tuttavia, il buio può dar vita ad ogni possibile immaginazione, agli incubi come ai sogni. E’ l’antico reame del mistero, forse dell’inconoscibile. Sconfinato e denso come il fondo del mare, il buio può nascondere, oppure fare emergere, qualsiasi essere o non-essere, divino o diabolico: di qui anche l’orrore o il terrore. Ma solo attraversando le tenebre degli inferi si trova la via della rivelazione, si trova la luce.
In tutto questo si celano le ragioni del buio, anche negli allestimenti.
1.
Nel mondo delle mostre, il buio assoluto è forse prerogativa esclusiva di Dialogo nel buio (14.1).
Dialogo nel buio è un’installazione inventata qualche decennio fa da Andreas Heinecke per consentire un’esperienza del buio vero, ossia della cecità, ai vedenti -i cosiddetti ‘abili’ o ‘normodotati’-, una volta tanto guidati e assistiti da non-vedenti -i cosiddetti ‘disabili’-.
E’ un’installazione che negli ultimi anni ha visto realizzazioni temporanee e/o permanenti in molte città del mondo. A Milano, nel 2003 per iniziativa di Franco Brambilla fu allestita per pochi mesi a Palazzo Reale (link). Sempre a Milano, nel 2005 un’edizione diversa e permanente venne inaugurata all’Istituto dei Ciechi. A Roma, qualche anno fa, l’idea fantastica di Antonio Orlandini di una nuova versione coprodotta con il MAXXI di Roma, è poi saltata…
Per una riflessione non solo sull’esperienza del visitatore, ma anche su quanto Dialogo nel buio possa insegnare a chi opera nel mondo delle mostre e degli allestimenti, si rimanda al saggio pubblicato in questo sito (link).
Qui, per ora, per chi non lo conosca e solo per un primo ‘avvicinamento’, sia sufficiente cominciare a chiedersi, ad esempio, in cosa consista la bellezza nel buio totale, oppure quale sia la percezione delle cose, quali siano le forme dell’apprendimento, in che modo si possa rappresentare o costruire un percorso.
Il buio, per i normodotati, è -dicevo- l’ignoto. Impone un’attenzione assoluta.
Ed anche per questo, paradossalmente, può essere uno strumento straordinario per mostrare, per far vedere.
In tutte le altre mostre -quelle ‘normali’-, ovviamente il buio gioca con la luce. In questi altri casi, con il termine ‘buio’ designiamo allora lo sfondo invisibile -o quasi- di qualcosa in primo piano che ci abbaglia, che ci incanta, oppure lo sfondo invisibile -o quasi- di qualcosa che intravediamo nella quasi-oscurità.
Esaminiamo tre casi ‘normali’.
2.
Nel 2005 al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano venne allestita la mostra Quando il latte diventa Centrale. Si voleva celebrare -prima della sua chiusura definitiva- la storica Centrale del Latte di Milano, conosciuta e amata da generazioni di milanesi, poiché orgoglio cittadino e meta per quasi un secolo di bambini in gita scolastica. (link)
La mostra documentava con fotografie e oggetti d’epoca l’epopea della Centrale. La sua nascita aveva dato inizio alla progressiva scomparsa di un mondo -quello dei carretti di lattai che facevano la spola tra le cascine nei dintorni e le latterie in città-, ma anche la cancellazione del tifo e di tante malattie fino ad allora endemiche e troppo spesso mortali. Poi, nel corso dei decenni e fino ai giorni nostri si era via via aggiornata, restando comunque un punto di riferimento -non solo italiano- nella lavorazione e nella distribuzione del latte.
La mostra -e perciò l’allestimento- doveva rendere onore a un’istituzione amata e ai tanti lavori ed oggetti umili, scomparsi con quel mondo lontano, ma fortemente presenti nella memoria di tanti milanesi.
E così, nel buio, in un’atmosfera di sogno e di ricordi, una via lattea di tetrapak sospesi nel nero suggeriva il sinuoso percorso tra mitologia antica e moderna del latte (14.2, 14.3), tra immagini di ogni tempo e oggetti d’uso ormai abbandonati.
In questa cerimonia della nostalgia, la luce concentrata dei faretti, nel buio, dall’alto, trasfigurava bidoncini e vecchi secchi zincati, palette e misteriose macchine di legno in preziosi reperti di un’antica misteriosa civiltà (14.4).
D’altra parte, come sanno bene le soubrette, qualsiasi cosa venga illuminata nel buio diventa protagonista, importante, affascinante, bellissima.
3.
Una situazione solo in parte analoga è quella che si presentava nella piccola e preziosa mostra Idoli – il potere dell’immagine, a Venezia, nel 2018, promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue -presieduta da Inti Ligabue- e curata da Annie Caubet.
A Palazzo Loredan, è evidente che occorreva lasciare in ombra le belle, ricche e stradecorate sale -che qui vediamo all’ingresso (14.5)-, per lasciare tutta la scena alla mostra (14.6 – 14.8) e al prodigio di questi piccoli capolavori (14.9 – 14.12).
Oggetti di culto in senso stretto? Ritratti di antenati o di potenti? Amuleti? figure apotropaiche? Ex voto?
Qualsiasi cosa fossero, sono comunque tracce di culture apparse e scomparse tra il neolitico e l’età del bronzo, tra seimila e quattromila anni fa, in tutta la vastissima area compresa tra l’estremo oriente asiatico e la penisola iberica.
In questa mostra non vi era neanche bisogno di ‘sapere’. Gli oggetti -e il modo di esporli come nude apparizioni nella luce (14.6 – 14.7) – ispiravano stupore, rispetto, meraviglia -e paradossalmente familiarità, appartenenza- in qualsiasi tipologia di visitatori, fossero essi bambini o adulti, addetti ai lavori o incolti, da qualsiasi nazione provenienti.
Perché familiarità e appartenenza? Perché l’impressione era ed è che quelle immagini, così felicemente raccolte in quella mostra, pur così antiche e -per molti di noi- esotiche, siano ancora profondamente presenti in noi, in una sorta di memoria inconsapevole.
Per non turbare l’emozione, le figure erano esposte con estrema semplicità, portando le didascalie -le parole- sui cristalli, fuori della vetrina (14.13, 14.14), e le informazioni generali circa popoli, luoghi ed epoche anche più in là, sulle pareti perimetrali delle sale, quasi nella penombra.
L’accurato apparato didascalico -cioè interessantissimo, diviso in brevi capitoli, come necessario in una mostra- consentiva di avvicinarsi più consapevolmente alle possibili ragioni di quelle cose, ma senza pregiudicarne l’occulta, profonda magia.
4.
Progettata e realizzata tra il 2009 e il 2011, e poi inaugurata nel 2012, la struttura espositiva della raccolta archeologica della Collezione Pallavicini a Trequanda, fu in realtà pensata per adattarsi anche a eventi futuri: una struttura permanente pronta a veder aggiungere pezzi nuovi, ad ospitare prestiti per integrare la collezione, ma anche ad accogliere nuove e differenti mostre temporanee…
Per una descrizione più accurata dell’allestimento e delle sue ragioni si rimanda alla scheda di presentazione in un’altra sezione di questo sito. (link)
Per i temi affrontati in questa clip, è sufficiente riassumere pochi punti.
Con un materiale povero, l’MDF, si dà forma, materia e un unico colore al luogo della mostra: si nasconde il luogo ospite -con la sola eccezione delle nude capriate della copertura (14.15)-, si crea il pavimento -per ospitare impianti tecnici e meccanismi delle vetrine (14.16)-, si compongono le griglie perimetrali -i carabottini, per filtrare la luce naturale e per ventilare (14.17)-, e le basi di appoggio -per esporre gli oggetti all’interno delle vetrine (14.20 – 14.21)-.
Le vetrine in cristallo extrachiaro partono da terra e non hanno cornici. L’illusione è che nulla separi oggetti esposti e visitatori. La speranza -si è detto- è che in futuro possano ospitare anche oggetti ben diversi.
La luce del sole durante il giorno disegna, ma non altera, la penombra generale (14.18 – 14.19). La luce dei led, interna alle vetrine, illumina i reperti archeologici -i protagonisti della mostra- (14.22 – 14.24) e lascia nell’ombra i visitatori e lo spazio in cui silenziosamente si muovono, come in un ipogeo.
Occorre lasciare che l’occhio scorra liberamente sulle forme e sulle figure. Per questo le didascalie sono serigrafate sui margini dei piani d’appoggio, quasi invisibili da lontano. Le spiegazioni più ampie, per i visitatori più attenti, restano sulle pareti perimetrali (14.17, 14.22).
Il percorso tra le vetrine è -apparentemente- libero: in qualsiasi direzione si vada, gli oggetti e le loro ragioni si riinviano dall’uno all’altro.
Riflessioni.
Tra i due pur diversi scenari della mostra Idoli, del 2018 e della Collezione Pallavicini del 2011 appaiono alcune analogie.
Rivediamone le linee essenziali.
Il target, i destinatari -in entrambi i casi- non sono soltanto gli archeologi, gli ‘addetti ai lavori’: si tratta infatti di esposizioni aperte a qualsiasi pubblico.
Non è cosa da poco: sono ancora troppi i musei archeologici che sembrano fatti da archeologi ad uso quasi esclusivo di altri archeologi, dove si vedono esposte cose dottamente denominate lekhitos, kylix, oinochoe, askos, epichysis, aryballos, skiphos, pelike, situla, olpe, kantharos, kyathos, stamnos, etc. etc. etc. (qui limitandoci ai soli ambienti greci ed etruschi), senza nulla dire su cosa sono (ad esempio: brocche o coppe), sul loro uso, sul perché hanno quelle forme, su chi quelle cose ha fatto.
Nel breve percorso di una mostra è certamente difficile -forse impossibile- trasmettere una conoscenza vera o lo stato degli studi su popolazioni scomparse da millenni.
Eppure, l’archeologia potrebbe essere intrigante e affascinante come la fantascienza -in particolare, il planetary romance-: in entrambi i campi si parla di culture ‘aliene’: di usi, costumi, credenze, religioni, che -reali o fantastiche- per la loro diversità possono anche dire molto sul nostro modo di vivere, oggi.
E’ importante comprendere che in qualsiasi mostra, come accade anche in queste due, si possono aprire degli squarci, dei flash su aspetti particolari, su dettagli, su elementi in grado di sedurre il visitatore offrendogli un’immagine -quasi un’istantanea- di un popolo e di un mondo.
E così facendo, forse, si possono arruolare gli archeologi di domani.
Il buio, o più esattamente, la penombra, serve a chiudere il recinto della mostra, per escludere tutto il resto, e mettere in luce -letteralmente, ma non solo- gli oggetti esposti.
L’illuminazione è interna alle vetrine, lasciando a fiochi spot periferici la sicurezza del percorso.
A Trequanda -come descritto nella scheda di presentazione (link)- con l’illuminamento interno alle vetrine, l’ambiente e gli stessi visitatori sono illuminati quasi soltanto dalla luce riflessa dagli oggetti.
A Venezia, ambiente e visitatori sono illuminati in parte dalle plafoniere interne alle vetrine, e in parte dalla luce riflessa dai bianchi basamenti.
Oggetti esposti e ambiente sono nettamente distinti.
A Trequanda, l’uso di un unico materiale -l’ MDF- fa sì che esso ‘scompaia’ e che la scena resti ai soli oggetti esposti. A Venezia, i basamenti bianchi sono invece necessari per marcare il territorio della mostra, per segnare il confine tra la mostra e il luogo ospite.
Non solo il buio, dunque, ma anche la chiarezza di confini e differenze, e, in breve, la coerenza degli apparati espositivi lasciano ‘da soli’ visitatori e oggetti esposti, lasciano loro tutto il gioco delle relazioni, dei traguardi e degli sfondi, il riscontro di analogie e differenze.
La percezione della separazione tra oggetti e visitatori è ridotta al minimo.
I cristalli extrachiari -ossia non verdastri- fanno sì che le vetrine non sembrino acquari e i reperti poveri pesci prigionieri. Segnano la vicinanza, non la separazione. Gli oggetti sono a pochi centimetri dagli occhi del visitatore.
L’illusione che non ci siano separazioni è data poi anche dal trucco di far partire i cristalli da terra, come i basamenti -l’illusione è più compiuta a Trequanda, dove l’allestimento permanente ha consentito un nuovo pavimento-.
Emozione e informazione sono affidate a modi, a tempi e a luoghi diversi.
In entrambi gli allestimenti, nell’impossibilità di spiegazioni approfondite -una mostra non è un libro-, si riconosce l’importanza e si offre la possibilità di un approccio ‘ingenuo’ agli oggetti esposti.
Si può far percepire il loro fascino, il mistero, la loro arcana bellezza, favorendo -come abbiamo visto- la fisicità del rapporto tra oggetto e visitatore.
Le didascalie, a Venezia sono lasciate fuori della vetrina, e a Trequanda sono ai margini del piano piano di appoggio. In entrambi i casi, quasi non interferiscono con la visione degli oggetti.
In entrambi gli allestimenti, il mondo della parola, le informazioni più ampie e complesse, vengono dopo, sono su pannelli a parete, lontane dalle vetrine.
C’è un tempo per vedere e un tempo per leggere.
14.1 Dialogo nel Buio, Palazzo Reale, piazza Duomo, Milano 2002
allestimento, con Federico e Pier Paride Vidari
studio per il logo
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14.2 mostra Quando il latte diventa Centrale, Museo della Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci, Milano, 2005
14.3
14.4
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14.5 mostra Idoli – il potere dell’immagine, Palazzo Loredan, Venezia 2018
allestimento di Marta Dal Martello, cura di Annie Caubet
14.6
14.7
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14.11
14.12
14.13
14.14
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14.15 Raccolta archeologica Collezione Pallavicini – Trequanda, 2012
allestimento con Paolo Giacomazzi,
foto courtesy by Bruno Bruchi
14.16
foto courtesy by Bruno Bruchi
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