clip 13.1: luogo e allestimento 3

Alvar Aalto dal MoMA di New York a Palazzo Te di Mantova

parte prima

New York

Premessa.

Questa clip affronta un unico tema che richiede più spazio e più riflessioni. Più ampia delle altre, è perciò divisa in due parti.

 

Per celebrare il centenario della nascita del grande architetto finlandese, nel 1998 il MoMA organizzò la mostra Alvar Aalto: Between Humanism and Materialism. La mostra fu poi portata da New York a Mantova, sintetizzando  il titolo in Alvar Aalto 1898/1976, e infine, per la terza e ultima tappa, al Sezon Museum of Modern Art di Tokio.

 

Il MoMA e Palazzo Te: due sedi diverse. 

Il MoMA, non ha bisogno di presentazioni: è uno dei musei d’arte moderna più importanti al mondo. Nato intorno al 1930, dopo aver cambiato sede più volte, occupa ora un edificio progettato espressamente -e più volte poi ristrutturato e ampliato- per ospitare nei suoi spazi opere d’arte, collezioni, mostre temporanee e, in generale, eventi culturali. (13.1)

 

Palazzo Te è un capolavoro di Giulio Romano, costruito tra il 1524 e il 1534 su commissione di Federigo Gonzaga, per esser luogo di ozio (honesto ocio, si legge in una sala) e di feste, anche in onore dell’imperatore Carlo V, che vi soggiornò nel 1530 e nel 1532. (13.2)

La storia ha cancellato le sue funzioni originali e, come tanti altri splendidi monumenti italiani [1], ospita mostre, convegni e differenti attività culturali. Ed è sede, dal 1990, anche dell’eponimo Centro Internazionale d’Arte e Cultura.

 

Il confronto tra queste due sedi rivela tradizioni e culture dell’allestimento completamente diverse.

Ma mette in evidenza anche il ruolo dei luoghi: il luogo ospite -ossia il luogo che ospita la mostra e che qui sostanzialmente coincide con l’organizzatore- e il luogo della mostra -ossia il luogo reinventato e/o utilizzato come medium espositivo, come parte integrante dell’allestimento-. [2]

 

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Parte prima

Allvar Aalto al Moma

Prima di vedere l’allestimento della mostra al Moma, un rapido sguardo ad altre mostre organizzate dal MoMA nello stesso periodo -tra l’ottobre del 1997 e il maggio del 1998- può forse aiutare a comprendere meglio le caratteristiche di ognuna.

 

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La mostra Achille Castiglioni: Design!, curata da Paola Antonelli, era un’antologica dei principali -e tanti- progetti del grande architetto-designer.

Paola Antonelli, scommettendo su solo tre strumenti, ‘ordina’ l’esposizione e inventa un luogo della mostra ben diverso e ben al di là di una classica ‘galleria d’arte’.

 

Le luci 

Le lampade di Castiglioni erano quasi tutte accese, poiché -come lui insegnava- le lampade devono essere giudicate -e perciò esposte- in ragione della luce che emettono (13.3).

I fasci dei faretti a soffitto. in dotazione nelle sale della mostra, erano usati con cautela, come elementi di rinforzo a servizio degli altri oggetti esposti, ma attentamente misurati per non alterare l’effetto delle lampade di Castiglioni. Il gioco congiunto -e appunto fortemente gerarchizzato- delle luci provenienti dalle lampade di Castiglioni e dai faretti esponevano gli oggetti come fossero altrettanti bizzarri personaggi sul palcoscenico di basse pedane bianche (13.4).

Le lampade di Castiglioni, dunque, non erano solo oggetti esposti, ma anche strumento dell’allestimento e guida visiva per gli spettatori.

 

Le ombre

Proviamo a guardare e a descrivere quello che vediamo.

Ombre a parete o a pavimento per delineare la forma delle lampade e degli altri oggetti (13.5).

Ombre per lasciare il campo alla luce che le lampade in mostra emettono e disegnano (13.1).

Ombre per separare gli oggetti e dare ad ognuno di essi il suo spazio  (13.1, 13.4).

Ombre per lasciare in ombra i visitatori e lasciar vivere i palchi (13.6, 13.7).

Assenza di ombre nella vetrina di misteriosi oggetti volanti (13.8).

Ombre, dunque, per disegnare il luogo della mostra…

 

Pareti vs pedane

Il nero e i colori sono usati per annullare la percezione della scatola muraria, per far sì che le pareti chiare diventino quinte, vele sospese in un largo spazio dai confini incerti.

E così, annullate le pareti, dallo spazio in ombra le pedane emergono come il palcoscenico che tiene insieme le gesta e i racconti degli oggetti esposti (13.6, 13.7).

 

In breve, si potrebbe riassumere l’idea fondante dell’allestimento con una semplice proposizione: la luce si mostra con l’ombra.

Che peccato non aver affidato la grande mostra in Triennale nel 2018 alla sapienza di Paola Antonelli…

 

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La mostra Egon Schiele: The Leopold Collection, Vienna, curata da Magdalena Dabrowski, contemporanea a quella di Castiglioni, ci interessa in modo particolare anche perché allestita negli stessi spazi che poi ospiteranno Alvar Aalto (13.9).

 

Un altro allestimento esemplare. Qui, l’idea chiave è il silenzio.

Il silenzio di pareti chiare su cui staccano le scure cornici, ma più scure dei passepartout che danno luce ai disegni, e nuovamente più chiare dei quadri di Schiele.

Il silenzio di una scansione dei disegni decisa con il metronomo, cui fanno da contrappunto alcune volute variazioni di ritmo, pause e riprese, per dare respiro, per assegnare il giusto spazio ad ogni singolo pezzo e a ogni gruppo (13.10, 13.11).

Il silenzio di una luce omogenea, appena sfumata dagli aloni dei faretti che accompagnano la scansione delle opere.

Il silenzio dei faretti nascosti a soffitto.

Il sussurro di didascalie in tinta con le pareti.

E quello di spazi ortogonali ed elementari, per dar luogo al gioco dei traguardi, tra primi piani e sfondi, nello scorcio tra una stanza e l’altra (13.11, 13.12).

Il luogo, qui, è una tipica galleria d’arte contemporanea. L’allestimento si risolve nella coerente applicazione della logica del white cube? Potremmo dire di sì: l’allestimento riesce quasi ad azzerare di fronte ai nostri occhi ogni ‘parola’ superflua per lasciare tutta la scena al dramma, alla tempesta che esplode da ogni tratto di matita, da ogni pennellata.

 

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Alvar Aalto al MoMA

Conclusi gli accordi preliminari tra le direzioni delle due istituzioni, nella primavera del 1998, Sergio Polano ed io andammo a New York per definire gli ultimi dettagli con il curatore Peter Reed e, naturalmente, per studiare la mostra allestita al MoMA, il cui titolo, come detto in apertura, qui era Alvar Aalto: Between Humanism and Materialism.

 

Peter Reed, dopo un gentilissimo benvenuto, come primo atto ci consegnò formalmente la checklist della mostra (13.13): le schede di tutti i pezzi, ordinate per cronologia e/o per tipologie, e corredate da un piccola foto identificativa di ogni pezzo e da tutte le informazioni necessarie a Polano -che avrebbe curato l’edizione italiana della mostra- e a me e Castiglioni -che ne avremmo curato l’allestimento-.

Quindi, Polano ed io visitammo la mostra.

 

La fotografia dell’ingresso fa bene intendere che la mostra su Aalto era una delle molte esposizioni compresenti al MoMA in quei giorni (13.14).

Nel reportage -che feci io stesso per poi riferire a tutti gli interlocutori italiani- e nelle foto d’archivio del Moma –https://www.moma.org/calendar/exhibitions/201– è subito chiaro che ogni progetto era meticolosamente testimoniato da una attenta scelta di schizzi autografi e/o di disegni originali, associati -nel caso delle realizzazioni- ad alcune fotografie di grande efficacia, e, nei casi più significativi, anche a illuminanti maquette. Tutto perfettamente ordinato cronologicamente e perfettamente coerente con la checklist.

 

Ma, è evidente, la mostra non aveva il fascino e la seduzione di quelle che abbiamo visto. Perché?

Il primo problema, qui, è che, salvo rare eccezioni [3], gli storici d’arte e gli architetti guardano gli stessi disegni in modo profondamente diverso.

Molti storici nei disegni di studio cercano un’idea, anzi l’Idea, come se un progetto fosse riconducibile ad un’improvvisa intuizione, ad un gesto in cui tutto si riassume. Un disegno può apparire ai loro occhi come qualcosa a sé stante, come un’opera d’arte.

Gli architetti negli stessi disegni cercano il processo progettuale.

Hanno fame di questo processo, poiché sanno che qualsiasi disegno di progetto è in realtà un viaggio tra ipotesi e visioni alternative, tra tentativi, annotazioni a margine, ripensamenti.

Il fatto è che un disegno di studio, per quanto bello, è uno strumento di lavoro, è un passaggio tra il disegno precedente e il successivo, o tra le mani dell’architetto e quelle di un interlocutore.

Dunque, non si possono esporre disegni di progetto con la stessa logica, con lo stesso allestimento con cui esponiamo i quadri e non si possono esporre maquette o sedie come fossero sculture. Gli stessi spazi, la stessa logica che hanno reso bellissima la mostra su Schiele sono visibilmente inadeguati per una mostra d’architettura o di industrial design.

 

Perché inadeguati?

Nella mostra le architetture di Aalto sono presentate esponendo gruppi misti di fotografie, schizzi di pugno dell’autore, disegni e -in alcuni casi- maquette (13.16, 13.21, 13.23). Per qualche progetto, poi, pochi schizzi e disegni sono gli unici documenti esposti.

Ma con questo modo di esporre, è inevitabile che ad un visitatore non esperto, che non conosca già perfettamente quel determinato progetto, sfuggirà la ratio di schizzi e disegni. E’ inevitabile che questo visitatore potrà apprezzare soltanto il tratto, il cromatismo, la maggiore o minore matericità di schizzi e disegni, appunto come se fossero opere d’arte astratta.

Ma come mai la documentazione a corredo di alcuni progetti è insufficiente? Semplicemente perché è insufficiente lo spazio complessivo assegnato alla mostra su Aalto.

E allora come si fa? Aggiungere pareti espositive significa restringere gli ambienti, significa creare un percorso tortuoso attraverso spazi di risulta che non hanno più il respiro che avevamo visto nella mostra su Schiele (13.25). D’altra parte, caricare le pareti con più disegni e fotografie significa acuire il senso di affollamento (13.17/13.20). E in questo contesto anche la vetrina dei vasi in cristallo appare troppo affollata (13.18).

In questa situazione, allora, la luce omogenea che nella mostra su Schiele faceva risaltare le differenze prorompenti tra ogni pezzo, qui appiattisce tutto. Non solo: diventa difficile perfino ‘staccare’ un progetto dall’altro.

In questa situazione, tingere le pareti di bianco o di colori pastello fa sì che si stringano ulteriormente i già angusti spazi della scatola muraria. Occorrerebbero i colori forti e i le pareti scure della mostra su Castiglioni? Qui l’unica parete ‘nera’ è il corridoio verso l’uscita (13.24).

 

Absit iniuria verbis. Una riflessione

Prima di tutto, potrebbe essere ingannevole accostare mostre così diverse: una di arte figurativa -Schiele -, una di industrial design -Castiglioni- e una di architettura. Un simile confronto si giustifica soltanto per testare e mettere a confronto concept ed esiti diversi.

Allestire una mostra d’architettura è un vero problema. In particolare, manca un elemento fondamentale del fascino di qualsiasi altra mostra: manca il rapporto fisico, diretto, concreto con l’oggetto esposto. Come abbiamo già discusso nella clip 12, a differenza di tutte le altre, una mostra d’architettura non può esporre i suoi oggetti. Può esporne soltanto le sue rappresentazioni: disegni, fotografie, maquette, e -da pochi anni- video.

Non soltanto. L’erotismo dei disegni di Schiele affascina qualsiasi osservatore. Gli oggetti disegnati dai fratelli Castiglioni sono talmente accattivanti, sprizzano talmente intelligenza e simpatia da sembrare cose vive, quasi fossero ‘persone’ che vogliono giocare con te.

Confrontare la loro magia con fotografie e disegni d’architettura è come confrontare l’ascolto di un concerto d’archi dal vivo con la sola lettura dello spartito della composizione musicale.

L’architettura può e deve emozionare, come un concerto, ma le sue rappresentazioni tradizionali richiedono una competenza troppo specifica, richiedono troppo tempo e fatica. E l’esposizione di un progetto ha consuetudini -se non regole- consolidate.

Allora, come si fa una mostra di architettura? La risposta è semplice, ma tutt’altro che facile. L’allestimento deve rendere le cose esposte accessibili a tutti i visitatori e, soprattutto, deve sedurli e coinvolgerli. Deve creare un luogo della mostra capace di dialogare con le cose esposte, di amplificarne le ragioni operando come medium attivo tra esse e il visitatore.

 

Dunque, non credo affatto che Peter Reed sia meno ‘bravo’ o meno ‘preparato’ di Paola Antonelli. La diversità che emerge tra le loro mostre ha due aspetti. Primo: il compito di Peter Reed era più difficile di quello di Paola Antonelli. Secondo: Peter Reed è americano, Paola Antonelli è italiana.

Questo cosa vuol dire? E’ una forma di razzismo a rovescio, Italiani contro Wasp?

Ovviamente no. E’ stato detto più volte in queste clip: in italiano esiste la parola allestimento che non esiste in inglese, né a quanto pare in altre lingue.

A questa parola corrisponde -come abbiamo visto- un modus operandi, un storia e una grande tradizione culturale. I ruoli del responsabile scientifico -il curatore- e del responsabile dell’allestimento -l’allestitore- in Italia sono istituzionalmente e giustamente distinti da oltre un secolo, poiché rimandano a competenze diverse (clip 00).

Dal punto di vista dell’idea italiana di allestimento, potremmo osservare che nel caso della mostra su Aalto non è stato creato il luogo della mostra.

Oppure, potremmo dire che la mostra su Aalto è stata allestita nel luogo di un’altra mostra.

O, ancora, potremmo dire che una galleria d’arte e la logica del white cube sono inadeguati per una mostra d’architettura, o che forse per funzionare devono offrire spazi ampi, ariosi, essenziali ed estremamente ordinati.

 

Due tradizioni e due culture dell’allestimento, dicevamo in apertura. La differenza di formazione e di tradizione culturale, poi, affiora forse anche in un altro dettaglio.

A ben vedere, il percorso espositivo della mostra su Aalto ricalcava la struttura di un libro.

I gruppi di disegni e fotografie -i progetti- erano composti sulle pareti -o più esattamente, erano impaginati, quasi tipograficamente- come sulle pagine di un libro, al fine di illustrare la sapiente ricostruzione storico-critica della figura e dell’opera di Alvar Aalto curata da Peter Reed.

Ma una mostra, lo abbiamo ricordato molte volte, non è un libro. Esige tempi e modi di ‘lettura’, di apprendimento, di godimento ben diversi da quelli di un libro.

 

Ultima osservazione. Forse è proprio nella compresenza di personalità, di tradizioni e formazioni culturali così diverse che sta la forza, la ricchezza e la perenne vitalità di un’istituzione come il MoMA.

 

 

 

[1] Tra gli altri, in queste pagina abbiamo già visto Palazzo Abatellis a Palermo, Castelvecchio a Verona, il Maschio Angioino di Napoli, il Castello di Rivoli, Villa Borghese a Roma,  etc.

[2] Per la miglior comprensione dei termini organizzatoreluogo ospite e luogo della mostra cfr. clip 00

[3] Una delle poche eccezioni che ho avuto la fortuna di conoscere era Manfredo Tafuri. Tafuri era capace della ‘doppia visione’ perché era stato architetto prima di dedicarsi alla storia. Comprendeva i disegni di progetto -ad esempio- di Antonio da Sangallo o di Giulio Romano perché li ridisegnava lui stesso, ripercorrendone il cammino, studiando le alternative, le idee… Cfr. in tal senso anche Questo – Disegni e studi di Manfredo Tafuri per la ricostruzione di edifici e contesti urbani rinascimantali, a cura di Anna Bedon, Guido Beltramini, Howard Burns  – Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Vicenza 1995.

13.1_moma_renovation_and_expansion-1536x1024

13.1  il MoMA, Museum of Modern Art, New York in un ‘immagine recente

https://www.edilportale.com/news/2019/11/aziende/il-nuovo-volto-del-moma-in-vetro-acciaio-e-alluminio_73268_5.

htmlhttps://www.frener-reifer.com/news-it/moma-the-museum-of-modern-art/

moma.org

 

 

13.2_Palazzo-Te-Mantova-Giulio-Romano-aerial-scritto

13.2  il complesso di Palazzo Te, a Mantova (* le Fruttiere)

http://www.palazzote.it/index.php/it/palazzo-te/palazzo-te-storia/il-luogo-e-il-nome

https://mincioedintorni.com/2016/04/21/mantova-a-palazzo-te-rivive-larte-mantovana-del-900/

http://www.duepassinelghetto.com

https://www.inexhibit.com/it/mymuseum/palazzo-te-mantova-giulio-romano/

 

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13.3_Cici_MoMA

13.3/13.8  mostra Achille Castiglioni: Design!

MoMA, ottobre 1997-gennaio 1998

Organized by Paola Antonelli, Associate Curator – Department of Architecture and Design

Ph: Thomas Griesel

https://www.moma.org/calendar/exhibitions/265?installation_image_index=21

 

13.4_7_Cici copia

13.4

 

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13.6

 

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13.8

 

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13.9_1_Schiele copia

13.9/13.12  mostra Egon Schiele: The Leopold Collection, Vienna

MoMA, ottobre 1997-gennaio 1998

Organized by Magdalena Dabrowski, Senior Curator, Department of Drawings

Ph: Thomas Griesel

https://www.moma.org/calendar/exhibitions/264?installation_image_index=14

 

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13.10

 

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13.11

 

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13.13  mostra Alvar Aalto: Between Humanism and Materialism – la checklist di tutti i pezzi in mostra

MoMA, febbraio-maggio 1998

Organized by Peter Reed, Associate Curator – Department of Architecture and Design

 

 

13.14_00_Aalto ingresso by MoMA copia

13.14  l’ingresso alla mostra

Ph: Thomas Griesel

https://www.moma.org/calendar/exhibitions/201?installation_image_index=43

 

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Ph: Thomas Griesel

https://www.moma.org/calendar/exhibitions/201?installation_image_index=43

 

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13.25  pianta generale del percorso, allegata alla checklist