clip 02: percorsi – una galleria

mostra Omaggio a Gillo Dorfles – il pittore clandestino

la quadreria

Parliamo ora di percorsi attraverso l’esame di una mostra temporanea.

La mostra Omaggio a Gillo Dorfles – il pittore clandestino, aperta al PAC di Milano nell’inverno del 2001, si presta a riflessioni che cominciano ad includere il percorso nel più ampio e complesso gioco dell’allestimento.

 

Prima di tutto, è bene ricordare chi e cosa è stato Gillo Dorfles, e quindi come si è formata l’idea della mostra.

In breve, Gillo Dorfles nasce nel 1909, a Trieste, a quel tempo porto dell’Impero Austroungarico sul Mediterraneo, centro di mille commerci, crogiuolo di popoli e di lingue. Studia e si laurea in psichiatria. Negli anni trenta comincia a dipingere, attratto dalla cultura europea e da quell’arte che il nazifascismo aveva bollato come ‘degenerata’. Si avvicina anche all’antroposofia e a Rudolf Steiner, e i suoi primi lavori ne restano influenzati. Dopo la guerra si trasferisce a Milano. Continua a dipingere, inizia la sua attività di critico e teorico dell’arte contemporanea e promuove nell’Italia appena uscita dal fascismo la conoscenza delle avanguardie europee del ‘900. Nel 1948, con Atanasio Soldati, Gianni Monnet e Bruno Munari fonda il MAC, il Movimento per l’Arte Concreta, cui presto aderiranno i più importanti artisti e architetti del momento. Negli anni ’50 espone in tutte le mostre del MAC, in Italia e all’estero, e in molte gallerie d’arte.

Alla fine degli anni ’50, la svolta: il pittore Gillo Dorfles scompare dalla scena. Nell’Italia dell’epoca non era ammesso che un accademico, docente di estetica, fosse anche un artista. In realtà, di nascosto, Gillo Dorfles non smetterà mai di dipingere. Diventa dunque un pittore clandestino. E, nel frattempo, i suoi studi sull’arte e la società contemporanea lo propongono come uno degli intellettuali italiani più affascinanti del suo tempo.

Gli stessi titoli di alcuni dei suoi saggi possono testimoniare l’ampiezza d’orizzonte delle sue ricerche: Il discorso tecnico delle arti (1952);  L’architettura moderna (1954); Il divenire delle arti (1959), Ultime tendenze dell’arte d’oggi (1961 e 1984); Nuovi riti nuovi miti (1965); Il Kitsch – Antologia del cattivo gusto (1968); Le oscillazioni del gusto – L’arte d’oggi tra tecnocrazia e consumismo (1971); Introduzione al disegno industriale (1972); I fatti loro – Dal costume alle arti e viceversa (1983); Dal neobarocco al postmoderno (1984); Il feticcio quotidiano (1988); Design. Percorsi e trascorsi (1996); Conformisti (1997); Fatti e fattoidi. Gli pseudoeventi nell’arte e nella società (1998)…

 

Come abbiamo detto in apertura, la mostra sarebbe stata allestita al PAC.

Il PAC -acronimo di Padiglione d’Arte Contemporanea- è stato progettato da Ignazio Gardella tra il 1951 e il 1954 al fine di ospitare un’esposizione permanente, ma, fin dall’inizio, è diventato sede di mostre temporanee.

Rispecchiando la divisione -e la gerarchia- delle arti visive secondo i dettami della museografia accademica del tempo, si articola in tre spazi molto diversi, destinati rispettivamente alla pittura (una galleria di cinque grandi sale a doppia altezza, i cosiddetti box), alla scultura (il grande open space del parterre, di fronte ai box, che tramite una vetrata continua si affaccia sui giardini della Villa Reale), e alla grafica (il ballatoio e la piccola galleria, al primo piano, proprio sopra il parterre). Sfalsando i piani, e giocando sugli affacci, Gardella fece in modo che le tre sezioni potessero dialogare tra loro.

 

Dunque, come fare una mostra su Dorfles?

Secondo la curatrice Martina Corgnati, non poteva esaurirsi nella semplice esposizione di quadri. Una mostra sulle opere del pittore clandestino non poteva prescindere dal confronto con tutta la complessità del personaggio: non si poteva ignorare né il fondatore del MAC, né il critico delle arti e del costume, né lo studioso e divulgatore delle avanguardie.

Dal confronto tra le esigenze espresse dalla curatrice e la particolare articolazione degli spazi del PAC, nacque l’idea di allestire una mostra divisa in quattro sezioni, ognuna diversamente connotata, come fossero quattro mostre coincidenti nella stessa sede, o quattro facce di un’unica opera: la straordinaria avventura di Dorfles.

 

Così, nella galleria del piano terreno trovò luogo la prima -e principale- sezione, ossia l’esposizione di un’ampia antologia delle opere del pittore clandestino dal 1935 al 2000.

Nel parterre, una sintesi estrema -ma significativa- del MAC fu affidata a poche opere dei quattro fondatori.

Al primo piano, poi, sul ballatoio che si affaccia sui box, un reportage fotografico raccontava mezzo secolo di attività critica e teorica.

Nella galleria dello stesso piano, pochi scelti gioielli di Kandinsky, Klee, Matisse, Arp, Taeuber, Mirò, Kupka, etc. testimoniarono le avanguardie che avevano ispirato il giovane Dorfles.

 

Cominciamo ora ad esaminare la prima sezione della mostra: l’antologia delle opere.

Nella pianta di progetto (2.1) si celano molti sottintesi.

Prima di tutto, la pianta fa vedere che la sequenza delle opere si sviluppava in cinque sale, ma non dice -e occorre qui segnalare- che ad ognuna di queste sale corrispondeva un determinato periodo della vita di Dorfles e -quasi sempre- la tecnica pittorica da lui adottata in quel periodo.

Perciò, passata la prima sala -d’ingresso- (2.2), percorrendo il grande disimpegno (2.3), sui pannelli davanti ad ogni box (2.4) una o due opere emblematiche -quasi imagines agentes– e un breve testo (nel disegno, una T ) introducevano alle opere, ai temi, e alle tecniche che il box avrebbe esposto.

 

La pianta non può dire neanche -e apparirebbe soltanto dal confronto con la lista dei pezzi predisposta dalla curatrice- che la sequenza cronologica dei gruppi di opere -e dunque dei box- era inversa.

Perché andare a ritroso nel tempo?

Le ultime opere, degli anni ’90, erano di grandi dimensioni, e dunque avevano bisogno di uno spazio più ampio, come quello del primo box, mentre, andando indietro negli anni i quadri erano sempre più piccoli…

Inoltre, la seconda sezione della mostra -come poi vedremo- era dedicata al MAC, fondato nel 1948: perciò, le ragioni di questo movimento meglio si sarebbero confrontate con i primi esperimenti di Dorfles, dal ‘35 al ‘48.

Occorre anche ammettere, onestamente, che forse le ultime opere del nostro pittore clandestino non erano le più interessanti. L’idea maliziosa fu che, cammin facendo, il visitatore fosse via via sempre più preso e sedotto dal racconto…

 

Alcuni dei sottintesi nella pianta dei box ritornano coerentemente nel disegno di alzato (2.5).

La prima cosa evidente è che nel disegno tutti i quadri sono disposti in una successione lineare che va da sinistra a destra -secondo il nostro verso di lettura-, cui corrisponde nella pianta -e nella realtà- un giro in senso orario.

La successione lineare, uno dopo l’altro, fu una scelta, poiché si sarebbe potuto decidere di esporli anche uno sopra l’altro, oppure -al limite- addirittura di riempire tutta una parete da cima a fondo.

Disporre i quadri uno dopo l’altro e porre il centro di ogni quadro a 160 cm da terra, significava metterli tutti all’altezza degli occhi del visitatore, significava cioè voler offrire al visitatore per ognuno di essi le migliori condizioni di visibilità.

All’opposto, l’horror vacui, coprire una parete di quadri come se fossero una tappezzeria, avrebbe significato proporre una suggestione d’insieme, o comunque portare l’attenzione su temi diversi dalla singola opera pittorica.

Ma non solo. Nei disegni (2.1, 2.5 ) la distribuzione dei quadri, benché apparentemente ordinata secondo la numerazione del catalogo, è -si è già detto- soltanto indicativa. Perché?

Il fatto è che le opere selezionate per ogni box avrebbero potuto subire delle sostituzioni causa le incertezze che un emozionatissimo Dorfles ci trasmetteva.

Inoltre, nella realtà, come sempre, le opere di ogni box avrebbero trovato la loro definitiva sistemazione in fase di montaggio, quando curatore e allestitore avrebbero avuto sotto gli occhi tutti i quadri veri -e non stampe o fotografie-.

In questa fase, al momento di attaccare i quadri, all’ordine del catalogo si sovrappone -e vince quasi sempre- una logica -per così dire- sostanzialmente ‘purovisibilista’: è qui che si decide, ad esempio, non solo la sequenza definitiva delle opere, ma anche quali opere isolare, e/o quali accostare tra loro, per rendere più evidenti  le differenze o le analogie compositive che le distinguono o le apparentano. Questo accade poiché all’interno di ognuna delle sale -la cui successione rispecchia la cronologia- l’ordine cronologico diventa meno significativo dei confronti tra le opere, i confronti che la visione simultanea rende possibili.

Nel disegno di progetto la distribuzione delle opere in ognuna delle sale è invece puramente ‘quantitativa’. Il disegno risponde sommariamente a due domande: quante opere possiamo mettere in quella sala? Viste le caratteristiche e le dimensioni delle opere, quale intervallo minimo dobbiamo lasciare tra loro nella successione lineare affinché il visitatore possa, se vuole, contemplare ogni singola opera -o ogni gruppo- senza interferenze visive?

 

Nella pianta è infine sottinteso che se all’allestitore fosse stato dato un adeguato tempo di studio e di esame delle opere, il progetto, forse, sarebbe stato ‘meno schematico’? Chi può dirlo?

L’idea che il progetto di un allestimento espositivo quale appare nei disegni possa coincidere perfettamente con la realizzazione, è probabilmente solo un’illusione. Uno degli aspetti che trasformano il cantiere nel teatro delle emozioni è che quando si trovano finalmente faccia a faccia le opere da esporre nel luogo dell’allestimento tutto può cambiare.

Nel cantiere, quando le opere via via arrivano dai luoghi d’origine in un nuovo luogo, e via via si misurano le une con le altre in nuovi contesti, curatore e allestitore si immergono in un processo sperimentale, quasi sempre inatteso e illuminante, che li porta a ri-conoscere le opere e a ri-scoprirne le valenze.

Per l’allestitore, in particolare, l’intuizione e la (pre)visione di questa reciproca incidenza tra il luogo e le opere, tra le opere, e -soprattutto- tra le opere e il visitatore, è propriamente il cuore del suo lavoro. E’ una delle prove più difficili, ma anche più entusiasmanti cui è chiamato.

 

Chiuso l’inciso, possiamo ora immaginare di entrare nella prima sala della mostra (il primo box) e poi, andando avanti, affacciarci sul disimpegno, e infine avvicinarci ed entrare nel secondo box (2.6, 2.7, 2.8, 2.9, 2.10, 2.11)

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7.0  Omaggio a Gillo Dorfles – il pittore clandestino, PAC di Milano, 2001 – le proiezioni sulla facciata d’ingresso

 

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2.1  Omaggio a Gillo Dorfles – il pittore clandestino, PAC di Milano, 2001 –  pianta schematica della prima sezione, l’antologia delle opere

 

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2.2  l’ingresso, il box 1, sullo sfondo il parterre e la scala verso la galleria del primo piano

 

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2.3  il disimpegno di fronte ai box

 

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2.4  la ‘copertina’ di un box

 

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2.5  box 2, sviluppo delle pareti e schema distributivo delle opere

 

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2.6  l’ingresso, il box 1, guardando a dx

 

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2.7  l’affaccio sul parterre

 

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2.8  idem

 

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2.9   la soglia del box 2

 

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2.10  il box 2

 

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2.11  interno del box 2